Se c’è una cosa di cui abbiamo tutti bisogno, prima ancora di entrare nel merito delle singole questioni aperte, è capire come stanno effettivamente le cose. Abbiamo bisogno, cioè, anzitutto di verità. A tutto tondo. Oltre i punti di vista, oltre gli interessi di parte, legittimi, ma di parte.
Dispiace dunque, sul Sole 24 Ore di venerdì 12 ottobre, leggere un pezzo, meramente corporativo, a firma di Carlo Tucci. Da un quotidiano autorevole come il Sole ci saremmo attesi ben altro taglio interpretativo. Al limite, un discorso a due voci, per avere una visuale più completa. Perché il pezzo di Tucci, invece, sembra la semplice riproduzione di un comunicato stampa sindacale, non l’analisi di una decisione del governo alla luce della “scuola reale”.
Qual è il limite principale del pezzo di Tucci? Di centrare il suo commento sui ventilati tagli di 30mila supplenze, riprodotti anche nel titolo dell’articolo, non sulla proiezione europea, finalmente, della scuola italiana. Un primo passo, questa proiezione, che dovrà comportare il ridisegno anche della governance, del profilo giuridico, della carriera, del dato stipendiale. Cioè, finalmente, di un nuovo riconoscimento sociale del “fare scuola” secondo merito e qualità.
Nel suo pezzo, invece, Tucci si è limitato ad una veloce analisi del prolungamento delle conseguenze delle cattedre a 24 ore, nella sola ottica dei tagli di organico, senza quello sguardo comparativo europeo che è la ragione, giusta o sbagliata – oltre al tema del bilancio pubblico – alla base della scelta del governo. Tucci si è limitato a dare voce alla sola voce corporativa in particolari di alcune sigle sindacali. Ma questi tipi di approccio, a mio parere, non possono più essere considerati adeguati rispetto ai temi sul tappeto, anche in ordine alla gravità della situazione che tutti stiamo sperimentando.
Sarebbe stato sufficiente, per dare al lettore un’idea il più possibile informata, partire da una tabella Ocse, per passare, poi, a ridefinire cosa vuol dire, concretamente, “servizio pubblico”, funzionale ad una reale autonomia scolastica, oggi in forte crisi per il rinato centralismo ministeriale, capace di diventare trasparente nei termini di una concreta valutazione di questo “servizio”, non più solo in ingresso, come è ancora oggi, ma lungo tutta la carriera dei presidi, dei docenti, di tutto il personale.
Lo stesso Tucci il giorno dopo, quasi ad ammenda del pezzo del giorno prima, accompagnato da un puntuale intervento di Luisa Ribolzi ha offerto una lettura non-corporativa. Resta però il rilievo di fondo, al di là dello stesso autore, sul modo di leggere e rapportarsi intorno a questi temi. Se vogliamo puntare ad una soluzione equilibrata e positiva delle questioni aperte, senza limitarsi alla mera partigianeria di posizione, cioè all’immobilismo conservatore.
La logica corporativa, lo sappiamo, oltre a mascherare la verità della “scuola reale”, cioè di quella scuola che è sconosciuta ai ministeriali come ad alcuni sindacati, ha come risultato la progressiva insignificanza delle stesse rappresentanze sindacali, insignificanza che, nel tempo, ha prodotto la perdita di autorevolezza del ruolo sociale dei docenti. Una vera ingiustizia nei confronti di quei presidi e docenti che ogni giorno danno il cuore, ci mettono passione e competenza per il bene degli studenti.
Si tratta, dunque, di capovolgere l’ordine delle analisi: partire dalla “scuola reale” per chiedersi, poi, quali debbano essere le norme in grado di supportare concretamente la domanda di qualità del “servizio pubblico”. Più in generale sono le norme che devono prefigurare la realtà, o non devono, piuttosto, le stesse norme, cogliere in sintesi la “giusta misura” tra realtà effettuale e “bene comune”? Per questo motivo, le letture corporative o centraliste sono oggi tutte superate perché insignificanti, perché dicono poco o nulla sulla realtà, cioè sulla verità dei fatti.
Prima ancora di entrare nel merito delle questioni aperte, questo è il dato preliminare. Perché, alla fin fine, contano sempre i risultati. E questi stanno chiedendo un governo, anche della scuola, che sia capace di riconoscere chi sta garantendo la qualità del servizio, e non la mera copertura di un posto di lavoro, di una cattedra, di una sedia. La logica sussidiaria è l’unica vera àncora di salvezza. Con l’attuale neo-centralismo, che sullo sfondo significa difesa del vecchio assistenzialismo, si sta invece negando il grande valore dell’autonomia. Basta leggere i ripetutti attacchi al testo del ddl Aprea, smussato da anni di infinite discussioni, appena approvato dalla commissione cultura della Camera. L’autonomia responsabile, potremmo dire, non è più di moda, tra di noi.
Il corporativismo, che ha attraversato tutta la storia italiana del novecento, è quel muro di gomma assistenzialistico che, alla fine, ha provocato i danni che oggi con fatica, anche con tante contraddizioni, stiamo cercando di sanare. Se non se ne esce, non saranno le scelte anche drastiche di Monti e del suo governo, non tutte condivisibili ma ad oggi il male minore, a ridare una speranza alle giovani generazioni, per una parte ancora inchiodate, in termini autolesionistici, ai vecchi slogan; quegli slogan che sono la causa prima delle magagne che tutti stiamo denunciando.
Se non sarà il vecchio limite corporativo ma la domanda di verità ad alimentare le scelte di governo del sistema, non solo scolastico, potremo condividere opzioni anche difficili, ma comprese come necessarie, magari anche più coraggiose dello stesso Monti. Imprescindibili, poi, per chiunque vincerà le prossime elezioni politiche.