Dinanzi all’ennesima protesta di professori e studenti, seguita dalla proposta (sul “Messaggero”, ndr) di un “patto per la scuola” lanciato domenica dal ministro Profumo, vale la pena di ricordare come gran parte dei problemi che assillano la scuola italiana le derivano dall’essere stata invasa da dinamiche che non la riguardano e che non ha originato, ma che di fatto si abbattono sui suoi protagonisti (gli insegnanti, gli studenti e le loro famiglie) incrinandone le motivazioni, seminando amarezze e, soprattutto, frustrazioni.
Non si può, tanto per iniziare, prescindere dalla pressione continua e sostenuta esercitata sulla scuola da una domanda di lavoro intellettuale e da una serie di competenze professionali che, non trovando accoglienza sul mercato del lavoro, ripiegano da decenni su quest’ultima, cercandovi una ricollocazione. A questa pressione, non avendo saputo reagire, per anni, attraverso le due uniche strade possibili: quella della ricomposizione di quello stesso mercato del lavoro che è all’origine di un tale problema, e quella dell’innalzamento dei livelli di qualità, si è risposto unicamente sotto la forma – probabilmente inevitabile, ma non meno letale – di un puro supplemento di legalità, curando le graduatorie e i controlli sulle procedure formali di ingresso.
L’universo della politica, a perenne ricerca di consenso, si è inserito in questa dinamica, cercando per decenni di aumentare spazi e opportunità formative, anche se questo avrebbe inevitabilmente comportato costi crescenti ai quali si sarebbe ovviamente replicato con bassi salari. A questo punto l’edificio scolastico, compromesso dalla forte spinta occupazionale e debilitato dal lavoro costante di ricollocazione di decine di migliaia di cattedre, si è dovuto misurare con le diverse emergenze educative che hanno interessato le crescenti incapacità della domanda, la sua crescente eterogeneità, il degrado crescente degli ambienti esterni alla scuola.
Ma non basta. Accanto ad una tale dinamica (non certo riconducibile al personale insegnante, che però ne paga le conseguenze in prima linea) ne va aggiunta un’altra, quella decisiva, e si tratta di una variabile culturale.
Di fatto, da almeno trent’anni ci siamo incamminati per una deriva professionalizzante rispetto alla quale qualunque digressione, cioè qualunque formazione più ampia, è concepita come un lusso per chi ha tempo. Ci si ostina a non capire che la scuola non svolge solo una pura funzione preparatoria al mercato del lavoro ma deve anche e soprattutto trasmettere un intero capitale formativo di base, della quale la nostra società e le nuove generazioni hanno profondamente bisogno. Perché è solo dalla conoscenza di un tale sapere (sia nella sua variante umanistico-letteraria che in quella tecnico-scientifica) che maturano le progettualità e le flessibilità reali per affrontare l’esistenza materiale, civile e morale, mantenendo la coscienza di un processo di civilizzazione del quale si è parte integrante.
Una tale banalità – che è perfettamente evidente agli insegnanti – è sempre meno legittimata all’esterno della scuola, in quello che possiamo definire “lo spirito dei tempi”. Ne consegue un declino di legittimità nel quale tutti (insegnanti e studenti) finiscono per essere coinvolti. I primi hanno la percezione di non essere considerati utili bensì marginali, i secondi vivono nella convinzione di compiere un percorso inadatto, sempre meno necessario, sempre meno vantaggioso.
Si esce dalla crisi della scuola recuperando la coscienza della radicale importanza dei contenuti e quindi quella di chi, per professione, deve trasmetterli. Ma è proprio in quest’ambito che si registra la maggiore fragilità del sistema. La soluzione burocratico-procedurale che avvia le folle di aspiranti all’insegnamento lungo un corridoio infinito di attese e di graduatorie è, in realtà, assolutamente interna a questo quadro delegittimante e finisce per alimentarlo. Fare della strada per l’insegnamento un vero e proprio percorso di guerra, nel quale intere generazioni di insegnanti restano intrappolate nella precarietà, fa sì che tanto i contenuti quanto la qualità della comunicazione diventano problemi secondari dinanzi allo “sciame sismico” di una professione che non arriva mai a definirsi. Soprattutto se deve lavorare “in salita” lottando contemporaneamente contro una delegittimazione che ne mina la credibilità e ne abbassa le motivazioni.
Se entrambi i problemi che affliggono la scuola, e che qui abbiamo individuato, vengono dall’esterno di questa (e se c’è magari responsabilità, questa risiede solo nell’averli affrontati in maniera funzionale al consenso politico ma irresponsabile nei suoi risultati) anche la soluzione non può essere solamente interna. Occorre certamente riaprire il mercato del lavoro fuori dalla scuola, liberandola da pesi e responsabilità che non le appartengono e che non sta a lei risolvere. Ma occorre anche recuperare la dignità delle funzioni in un processo di reciproco riconoscimento. A quello di una funzione insegnante da restituire al suo prestigio (e quindi anche ai suoi doveri ed alle sue responsabilità educative) va riconosciuta anche una funzione discente da recuperare al desiderio di verità che la anima e che ne costituisce l’anima reale. Gli insegnanti non sono affatto degli incompetenti, così come gli studenti non sono affatto dei giullari in perenne fuga dall’aula.
Ora mi sembra che queste evidenze siano in realtà molto meno sottolineate di quanto non si creda. Quando un giornale autorevole come il Corriere della Sera contrappone la professione alla vocazione (“Insegnare è una professione, non una missione”, intervista a Gianfranco Giovannone, 7 ottobre 2012), finisce con lo sposare in pieno la sindrome utilitarista che dovrebbe combattere. Esattamente come ridurre l’insegnante ad un compilatore di domande con la valigia sulla porta è parte integrante di un identico processo di delegittimazione.
Lavorare solo per la busta paga e nella convinzione che il prestigio derivi solo dal peso di quest’ultima è la riproduzione pura e semplice di quella stessa società degli affari che si dovrebbe combattere. Non esiste nessuna professione, da nessuna parte, che possa essere svolta senza un supplemento d’anima, senza una convinzione personale che si stia facendo qualcosa di sommamente importante, per sé e per gli altri. Il solo prestigio che conta è quello che si merita solo per l’importanza di ciò che si fa e per come lo si fa.
Il problema delle retribuzioni è invece fondamentale da un’altra prospettiva: quella del merito. È infatti altrettanto vero che nessun sistema educativo può pretendere livelli qualificati di impegno senza preoccuparsi di riconoscere il merito di chi vi si applica. Mi limito ad osservare come negli altri Stati europei (dove gli stipendi sono superiori) non esistano compensi uguali per tutti, ma questi sono significativamente più elevati solo per chi presenta credenziali superiori di formazione, accertate attraverso idonei concorsi, disciplina per disciplina e il cui argomento generale viene annunciato un anno prima, affinché si possa studiare e ci si possa preparare sul serio.