Come non condividere le buone intenzioni espresse dal ministro dell’Istruzione Francesco Profumo nell’intervista rilasciata l’altro giorno al Messaggero? Secondo il ministro – sotto pressione per la forte reazione negativa al proposito di estendere di sei ore l’orario dei docenti della scuola secondaria – il contratto del 2014 dovrebbe rappresentare la grande occasione “per stipulare un patto per la scuola nel quale dovrà esserci il riconoscimento del grande ruolo dei docenti. Questo ruolo va rivalutato in termini assoluti, anche per quanto riguardo lo stipendio. Rilancio della reputazione del ruolo dell’insegnante e insieme gratificazioni finanziarie”.
Ottimi intenti che, finalmente, dopo tanta fiducia riposta nella capacità delle procedure di governare la qualità dell’istruzione (tanto da far pensare a una specie di ideologia proceduralista), mettono al centro dell’azione scolastica il docente. C’è un “capitale invisibile” ma fondamentale da cui dipende la qualità della scuola: quello rappresentato dagli insegnanti appassionati, colti, capaci di stabilire buone relazioni con gli allievi.
A chi scorre, anche frettolosamente, le vicende scolastiche italiane degli ultimi decenni non sfugge che questo capitale non è stato coltivato come si sarebbe dovuto: la scuola è stata spesso concepita dai governi (sotto la forte pressione dei sindacati) come un luogo di assorbimento della disoccupazione intellettuale, la formazione in servizio lasciata alla buona volontà dei singoli, il tempo-lavoro ridotto come cent’anni fa e conseguenti stipendi da fame.
Su ogni cosa che riguardasse i docenti è aleggiato un egualitarismo la cui matrice è di difficile decifrazione: non si sa se di marca vetero sessantottina o semplicemente corporativo. Tutti ufficialmente uguali con una strenua opposizione preconcetta a qualsiasi iniziativa non solo volta a valutare la qualità delle prestazioni docenti, ma anche semplicemente orientata a prevedere nella scuola nuove figure professionali.
Ora il ministro afferma che bisogna battere strade diverse e anticipa che il suo proposito, nell’incertezza che il 2014 lo veda ancora a capo del ministero, sarà quello di compiere “un lavoro preliminare per lasciare in eredità un’idea europea di scuola, visto che i nostri ragazzi si cimenteranno in un mercato europeo del lavoro”.
Ci permettiamo di suggerire che un bel passo in avanti per tradurre fattivamente queste buone (anzi, ottime) intenzioni in piani operativi potrebbe essere quello di mettere subito in campo due iniziative. Una dovrebbe riguardare la formazione permanente dei docenti in forma obbligatoria (e non sostanzialmente facoltativa come accade oggi). Non c’è professione che non preveda un’azione del genere. L’altra andrebbe centrata sulla valutazione delle prestazioni dei docenti da affiancare alla valutazione del sistema nazionale d’istruzione.
Se si vuole perseguire la valorizzazione dei docenti non ci sono che queste due strade che naturalmente richiedono un certo investimento (non particolarmente elevato), ma le nozze con i fichi secchi non hanno mai dato grandi risultati. In tutta l’Europa scolastica – almeno quella con cui dobbiamo confrontarci preferenzialmente – si dispone di entrambe queste leve.
La formazione come azione costante di miglioramento della qualità dell’azione educativa e didattica, la valutazione come occasione per tenere sotto controllo non solo le scuole, ma anche per valorizzare chi se lo merita e individuare chi invece prende lo stipendio a sbafo.
Non si può chiedere tutto a un ministro che ha prospettive di governo di sei-sette mesi. Ma se il prof. Profumo riuscisse a mettere qualche tassello a posto, per esempio, nella prospettiva di dar vita a un sistema di valutazione degli insegnanti – presupposto per il superamento degli automatismi stipendiali – non sarebbe male. Non mancano nelle esperienze di altri Paesi e nella letteratura scientifica indicazioni utili per capire come si potrebbe agire.
Qualcosa, del resto, è già stato fatto anche da noi. Due anni orsono il Miur infatti promosse, con il concorso della Fondazione per la Scuola di Torino, una significativa sperimentazione per cominciare a esplorare come valutare i docenti. I risultati – nonostante le resistenze di ogni tipo incontrate dall’iniziativa – furono interessanti in specie circa la validità e praticabilità del modello perseguito e cioè quello cosiddetto “reputazionale”. Non se n’è più saputo nulla e il rapporto finale giace probabilmente in qualche cassetto del ministero. Perché non riprenderlo subito e di lì ripartire per mettere in atto un intervento progettuale più ampio?
Il modello “reputazionale” è molto interessante perché non si affida all’aridità delle sole procedure, ma si basa sulle persone e, in particolare, sulla raccolta incrociata di dati obbiettivi e di informazioni tra i colleghi, i genitori, gli studenti circa la stima – la reputazione, per l’appunto – goduta dai docenti. Si tratta di un modello molto flessibile, meno rigido e deterministico, per esempio, di quello che fa invece prevalente perno sui risultati degli allievi (la qualità di un docente, in questo caso, viene stimata in rapporto al successo scolastico dei suoi alunni).
Il ricorso alla reputazione dei singoli insegnanti presenta anche un altro pregio in quanto è meno esposto alla soggettività di un altro modello al quale si potrebbe ricorrere (e in alcuni Paesi europei in effetti si ricorre), e cioè la valutazione affidata ai dirigenti e al corpo ispettivo. Esso infatti amplia l’area di giudizio non solo a più persone, ma anche agli attori non professionali direttamente interessati al buon andamento della scuola.
Naturalmente nessun metodo è perfetto al 100 per cento. Ho fatto riferimento al modello “reputazionale” perché su questo esiste già del materiale da cui far ripartire il discorso e il confronto con i sindacati. Finora questi ultimi hanno fatto orecchie da mercante e hanno cercato di tenere alla larga il più possibile ogni tipo di valutazione. Se il ministro riuscisse a scalfire, anche poco, questo atteggiamento con una proposta significativa, sarebbe un bel passo in avanti.