In senso puramente logico, rimane difficile credere che le dichiarazioni del ministro Francesco Profumo riguardanti l’insegnamento della religione cattolica (Irc) siano state espresse dalla stessa persona che, appena tre mesi fa – era il 28 giugno – ha ratificato insieme al Card. Angelo Bagnasco l’ultimo protocollo d’intesa Cei-Miur su quella stessa disciplina scolastica.



In questo documento, infatti, si stabiliscono chiaramente i programmi e le modalità dell’Irc, i criteri di scelta dei libri di testo e i cosiddetti “profili di qualificazione professionale” dei docenti. Oltretutto, prima della firma, il ministro aveva ripercorso le tappe della normativa riguardante la materia della quale è quindi, almeno nei caratteri generali, a conoscenza. Di conseguenza, appare difficile sostenere che le esternazioni del ministro siano ascrivibili alla sua “totale” ignoranza in materia, come qualche commentatore ha scritto. Si può probabilmente non considerarlo un tecnico della complessa problematica legata alla questione, ma sicuramente Profumo non è all’oscuro delle finalità generali dell’insegnamento della religione e del loro ruolo nell’ordinamento scolastico italiano. 



È possibile invece che il ministro, sentendosi nella circostanza libero dal ruolo istituzionale, abbia semplicemente espresso il suo personale pensiero sull’argomento. Egli sostiene che l’ora di religione, così com’è, non ha più senso perché, in quanto centrata sulla sola religione cattolica, appare anacronistica e incapace di contribuire ad un’offerta formativa adeguata alla presenza sempre più crescente nella nostra scuola di studenti di tradizione non cristiana.

L’affermazione del ministro – che contiene implicitamente anche una giusta preoccupazione per la domanda formativa rappresentata dai giovani stranieri residenti in Italia – è seria e non chiama in causa solo l’insegnamento della religione cattolica e il suo posto nella scuola italiana, ma uno dei problemi più rilevanti presenti nel sistema educativo italiano: l’incomprensione o la consapevole negazione della tradizione culturale e del suo fondamentale valore nel processo educativo e formativo.



Se la tradizione è quel complesso di significati, di risposte ai problemi più diversi che l’impatto con la realtà suscita, da quelli pratico-materiali fino al senso ultimo dell’esistenza, e quindi di ipotesi di soluzione che gli uomini del passato hanno elaborato e ci consegnano, allora non solo non può esserci scuola senza la proposta di una tradizione, ma la stessa civiltà sarebbe compromessa. Perché non solo ogni generazione dovrebbe ricominciare daccapo il suo cammino rispondendo con le sue sole forze alla sfida del mondo in cui si trova a nascere; e questo ovviamente in tutti i campi compreso quello scientifico-tecnologico. Ma soprattutto perché, proprio in quanto privato di una traccia almeno ipotetica di soluzione con cui entrare in un paragone critico accompagnato da un adulto-maestro e abbandonato a se stesso nella ricerca di soluzioni, il giovane non ha altra alternativa che uno scetticismo totale sulle proprie capacità conoscitive e sulla propria identità personale, unito spesso ad un ribellismo, più o meno violento e dalle svariate forme, contro quel mondo adulto che non ha saputo e voluto accoglierlo nella vita.

E non si può forse assimilare a questa condizione di “spaesamento” anche un giovane straniero che chiede alla nostra scuola di essere accolto ed educato, e si vede rispondere solo con un insieme di norme etiche e di nozioni tecniche? Può un’astratta “cittadinanza” corrispondere alle sue aspettative? Quale tipo di relazione umana con il nuovo ambiente e di inserimento potrà avere? E quale occasione di scambio e arricchimento reciproco con i suoi coetanei italiani?

In realtà quanto descritto in linea teorica purtroppo sta già accadendo praticamente da diversi anni e gli effetti devastanti di questa assenza totale o parziale di proposta sono contenuti e ritardati solo dall’unica reale offerta fatta oggi ai giovani e nella quale essi, desiderosi di risposte e di guide, si riversano: la tecnologia intesa come strumento di controllo della realtà e fine dell’azione formativa, ammortizzatore sociale di massa, al di sopra di popoli e identità nazionali, unica vera tradizione universale praticabile, fattore mondiale di omologazione culturale. “La razionalità scientifica e la cultura tecnica […] tendono ad uniformare il mondo” (Benedetto XVI). Proprio in questi giorni, le lunghe file in tutto il mondo per acquistare o anche solo per osservare il nuovo iPhone 5 sono in un certo senso emblematiche, e lo dico senza moralismo.

Per la sua storia, per formazione culturale e professionale, considerate le sue dichiarazioni ideali sulla scuola, Profumo sembra appartenere proprio a quel modello culturale pragmatico e tecno-illuminista, ben descritto da Costantino Esposito, che ispira e dirige questo processo epocale di sostituzione della tradizione con il novum tecnologico.

All’interno di quella mens e tenendo presente il suo compito di ministro, la critica di Profumo all’ora di religione, niente affatto nuova nel suo contenuto essenziale, è perfettamente comprensibile. Infatti, l’ Irc costituisce un oggettivo ostacolo, una sorta di “zoccolo duro” resistente al progetto di assimilazione della scuola al sistema culturale neo-tecnocratico. Questo proprio per il suo, mi scuso per l’espressione, “alto tasso” di tradizione. Certo, ogni disciplina scolastica in fondo è un brano di tradizione che proviene dalla storia e che, attraverso l’insegnante che la “incarna”, dovrebbe arrivare agli studenti nelle aule scolastiche. Ma in questi ultimi decenni un esasperato tecnicismo pedagogico-didattico figlio di quella stessa matrice culturale sopra descritta, di fatto dominante nella scuola anche se ultimamente con qualche ripensamento di fronte ai disastrosi risultati nell’apprendimento, ha ridotto anche le discipline per motivi diversi più contigue all’insegnamento della religione cattolica (letterature, filosofia, arte etc.) ad arido esercizio applicativo, depotenziandone il valore educativo, per non parlare di quelle dell’area matematico-scientifico-tecnologica. 

L’Irc invece rimane meno trasformabile perché trae la sua origine, il suo contenuto e la sua linfa dall’avvenimento cristiano presente nella Chiesa e da quello che, nella storia passata e nel presente del nostro paese, quel fatto irriducibile ha generato e continua a produrre come concezione dell’uomo e del mondo, cioè come cultura. Legata indissolubilmente al corpo  della Chiesa che ne garantisce la fecondità sempre nuova e la vitalità, l’ Irc è per sua natura luogo nella scuola dove si può riaccendere l’umano proprio perché allo studente è chiesto di usare la ragione per confrontare gradualmente le domande che emergono dal suo incontro con la realtà con la risposta offerta da quella tradizione, particolare e universale allo stesso tempo, proveniente da quell’Uomo. Proprio perché metodologicamente basata sull’uso della ragione, essendo una disciplina scolastica a tutti gli effetti che ha come scopo l’apprendimento, l’Irc è per tutti quelli che ne vogliano usufruire e non siano impediti da pregiudizi ideologici o da dettami religiosi. 

Esiste però una grande condizione perché la piena potenzialità educativa dell’Irc possa dispiegarsi: che chi insegna questa disciplina sia sempre più consapevole del suo valore e della posta in gioco. Siccome non esiste una materia scolastica in astratto, ma solo in atto in chi la insegna, è necessario che i docenti di religione, nell’alveo di un’appartenenza ecclesiale consapevole, intanto svolgano per sé quel cammino personale di verifica senza il quale, anche riproponendone correttamente i contenuti, la tradizione diventa “lettera morta”. E poi che trovino luoghi di formazione e di confronto professionale adeguati, allo scopo di evitare quelle riduzioni dell’ Irc ad intrattenimento etico che rende la l’ora di religione molto simile, paradossalmente, a quanto chiede il ministro.