In queste settimane nella scuola non si parla d’altro: 15 giorni di ferie in più in cambio di 6 ore di scuola in più. Nessuno, insegnanti, dirigenti e persino gli impiegati di segreteria, ha potuto evitare un sorriso amaro di fronte a questa proposta, perché tutti nella scuola hanno capito subito che quei 15 giorni non erano altro che la somma delle vacanze di Natale e di Pasqua… così è apparso chiaro che non si trattava di una “proposta” (senza considerare che la materia sarebbe dovuta essere oggetto di contrattazione), ma di una beffa o, come ha detto giustamente qualche osservatore, di una vera e propria corvée chiesta agli insegnanti.
Tralasciando per un momento le conseguenze che tale provvedimento avrebbe sulle opportunità di lavoro per i docenti a tempo determinato (cioè i precari), resta una evidenza: che si tratti di governi tecnici o governi politici, quando si parla di scuola, al di là delle roboanti espressioni quali “riforma”, “riordino”, “patto per la scuola”, la sostanza non cambia perché l’obiettivo è sempre lo stesso, ridurre i costi (o, meno poeticamente, tagliare). Lo ha confermato qualche autorevole membro del ministero quando nei giorni scorsi, con colpevole ritardo, ha detto che sì, forse il provvedimento non è adeguato, potrebbe essere ritirato, a condizione che si trovino i soldi di cui c’è bisogno.
Al di là delle prese di posizione corporative o preconcette, di fronte alla crisi economica e alla perdita di posti di lavoro, chiunque abbia buon senso, anche nella scuola, non intende certo difendere i privilegi degli impiegati pubblici, come sono anche gli insegnanti, ma riconosce che ogni sforzo debba essere fatto per evitare gli sprechi.
Ma qui non si tratta di privilegi. Quella che non è più accettabile è la concezione del mestiere di insegnante che emerge sempre, una concezione a dire il vero che non è solo degli ultimi anni ma ha ispirato ad esempio i contratti di lavoro dal dopoguerra ad oggi: ed è la logica dell’impiegato, cui va riconosciuta solo la “quantità” di lavoro, in più o in meno. Così quando si deve intervenire lo si fa in modo orizzontale, senza avviare mai una seria riflessione sulla “qualità” del lavoro.
Proprio di fronte alla crisi – lo dicono tutti gli analisti – ci sarebbe necessità di investire sul “capitale umano”: dunque la funzione della scuola è decisiva per lo sviluppo di una società. Ma occorre uscire da un equivoco: investire sulla scuola non vuol dire necessariamente attribuire maggiori risorse (specie se non ce ne sono). Investire sulla scuola vuol dire anche ampliare gli spazi di libertà e di responsabilità, individuare criteri di premialità non generici ma ispirati ad una osservazione dell’impegno, valorizzare la capacità di incrementare “capitale umano” – come dicono gli economisti –, introdurre criteri di progressione di carriera legati al “merito” e non agli automatismi dell’anzianità, combattere la logica dell’adempimento formale, introdurre sistemi flessibili, garantire maggiore autonomia, considerare la capacità delle scuole di creare sul territorio valore aggiunto.
Il Rapporto dell’Ocse Education at a glance 2012 ci ha detto che gli insegnanti italiani rispetto ai colleghi europei lavorano poco, sono troppi e percepiscono stipendi bassi. Ammesso che questi dati corrispondano al vero, ogni intervento correttivo, anche duro, sarebbe comunque comprensibile ed anche accettato nella scuola se inserito appunto in un contesto di valorizzazione delle competenze professionali degli insegnanti e di rafforzamento dell’autonomia della scuola.
Invece di tutto questo non vi è traccia. In questi mesi su alcune questioni importanti per la vita della scuola abbiamo visto riemergere la vecchia logica, quella di un rigido centralismo. Sembra questo il filo rosso che ha accomunato la gestione dell’avvio del Tfa, il nuovo concorso per il reclutamento così come la decisione di prolungare l’orario di insegnamento nella secondaria. Rigidità e centralismo: il contrario di quella flessibilità, di quella sussidiarietà, di quella capacità di accountability che caratterizzano i migliori sistemi scolastici mondiali.
Tutti quei motivi per cui, nell’indagine Istat del 2007, il 78,3% dei docenti affermava che, potendo ricominciare, avrebbe scelto di nuovo lo stesso lavoro − e cioè il rapporto con gli studenti, la passione per l’insegnamento, la possibilità di mettere nel lavoro la creatività, il rapporto con i colleghi; anche se proprio queste cose vengono costantemente ignorate e quasi mai riconosciute e valorizzate, non ultimo dal punto di vista economico.
È giunto il momento invece di andare davvero a guardare cosa accade dentro la scuola reale e quindi a considerare e mettere al centro, finalmente, proprio questi aspetti del mestiere dell’insegnante per troppo tempo ignorati: non “le ore in più”, “i progetti in più” ma l’impegno nella ricerca didattica e metodologica, nell’aggiornamento professionale, la volontà di farsi carico di situazioni, la disponibilità al miglioramento di relazioni con studenti e genitori…
Dunque, se è davvero condivisa la consapevolezza che nell’esperienza scolastica tutto dipende dall’iniziativa dei suoi protagonisti, docenti e dirigenti, è necessario contrastare ogni azione che mortifichi la professionalità insegnante e riduca l’autonomia della scuola, esattamente perché va contro la possibilità di fare della scuola un luogo “vivo”, capace di educare, cioè di far crescere i giovani.
C’è dunque da augurarsi che il governo faccia rapidamente marcia indietro sul provvedimento, ma soprattutto che questa sia l’occasione perché il dibattito sulla scuola e sulla professionalità docente non sia ridotta – parafrasando un noto film di Sergio Leone − ad una questione di “qualche ora in più”.