Non è mai facile dire la verità, la cruda verità. In rete c’è modo di leggere reazioni di tutti i tipi sulla battuta del ministro Elsa Fornero, cioè sul suo invito a non essere troppo “choosy”, esigenti, nella scelta di un posto di lavoro.

Una cosa ovvia, potremmo aggiungere. Ma meglio non sentirsela dire questa semplice verità, se ha finito per scatenare l’ennesima polemica. Quindi una ovvietà non proprio ovvia, si potrebbe concludere. 



Basta dare un’occhiata agli slogan ripetuti nelle varie manifestazioni, con la richiesta allo Stato di un lavoro, di un’occupazione. Come se il lavoro dipendesse da una decreto del governo, da una legge dello Stato, da una qualche norma “assistenziale”. Forse in passato è avvenuto proprio questo, forse in alcune regioni è facile capire l’origine dei grandi deficit degli enti locali. Fatto sta, e questa è la nuda verità, che non si crea dal nulla un posto di lavoro, non basta cioè invocarlo perché poi lavoro sia, magari indifferenti ai limiti di bilancio, moltiplicando invece il disavanzo. Cioè scaricando sugli altri, in particolare sulle future generazioni, il costo di queste forme assistenziali. 



Il ministro ha ragione. Non siate “schizzinosi”, choosy, ha detto ai giovani. Occorre in misura maggiore uno spirito di positivo adattamento ad opportunità che raramente, purtroppo, sono in linea con il proprio percorso di studio, le proprie aspirazioni, le proprie competenze, i propri sogni.

Ora, questo adattarsi rappresenta comunque un valore. È sempre bene ripeterlo, questo, per offrire un filo di speranza. Adattarsi cioè ad un frammento di lavoro, magari lontano dalle proprie aspirazioni, è come allenarsi ad una complessità che, prima o poi, offrirà altre e sempre nuove opportunità. I treni nella vita, è sempre bene ripeterlo, si presenteranno a tutti, prima o poi. Si tratta anzitutto di saperli riconoscere, preparati e disponibili a fare team, sempre curiosi e attenti a cogliere al volo l’essenziale intorno alle competenze richieste.



Il tema posto dalla Fornero, quindi, non merita le solite reazioni emotive o irrazionali, ma una riflessione seria, ponderata, concreta. Una riflessione che, al tempo stesso, potrebbe ricordare che la sua riforma del lavoro è ancora troppo timida, non in grado di rappresentare l’attuale complessità, ancora vincolata a modelli sorpassati, anche se apre ad un apprendistato per tutta la filiera formativa. Un primo passo, dunque.

Dall’altra, è sempre bene ricordare ai nostri giovani il valore positivo della competizione, cioè della messa a confronto, nel mondo del lavoro: è col confronto che si può imparare da tutti, in particolare dai più bravi, per essere poi in grado di offrire competenze ancora più qualificate. Mentre da noi, nel sottofondo della nostra cultura, la competizione richiama ancora un valore negativo, cioè l’idea che chi mi sta accanto mi possa rubare un qualche “spazio vitale”.

Dobbiamo aiutare i nostri giovani a costruirsi un’esperienza di vita, anzitutto. Attraverso le tante palestre, che sono anche (non solo) i mondi del lavoro. Sapendo che non sono i pezzi di carta, laurea o diploma, che alla fin fine contano. I pezzi di carta certificano alcuni standard di partenza, ma questi non bastano più, come si riteneva anche nel recente passato. Contano le competenze spendibili, conta la passione, conta l’originalità del proprio apporto all’interno di un team, conta dimostrare di essere “svegli” ed aperti alle sempre nuove complessità.

Ci vorrebbe davvero un Piano Marshall in Italia, per ridare speranza alle nuove generazioni. Capace di ridisegnare l’offerta formativa delle università e delle scuole, ai fini della reale “occupabilità dei titoli di studio”, capace di riscrivere in toto i diritti e le responsabilità, in ragione dei risultati, non della difesa “a prescindere” di un posto di lavoro, capace di ridare invece slancio agli ascensori sociali, secondo il merito e la pari dignità di tutti i percorsi di studio e di tutte le professioni.

Il lavoro come palestra di vita, prima del profilo professionale, capace di tradursi in un curriculum vitale dinamico, è il migliore lasciapassare verso la “società aperta” del nostro villaggio globalizzato. Questo nuovo “villaggio senza confini” ha portato alla moltiplicazione dei centri di interesse, ha portato cioè alla affermazione di una società multiculturale, con l’integrazione di interessi, convinzioni, lingue, costumi di vita.

I nostri giovani, in particolare, dobbiamo educarli a girare il mondo, a vivere in questo contesto “glo-cale”, cioè globale e locale assieme, liberi di scegliersi i destini personali (alla ricerca di un lavoro e di un proprio stile di vita, disponibili a quella ricchezza creativa che tanti nostri imprenditori stanno cercando, che sta permettendo a tanti nostri ricercatori di vincere borse di studio in mezzo mondo). Così si svincolano dalla vecchia pratica assistenzialistica, dalla “coltura”, più che “cultura”, di soli diritti, pretesi senza un corrispettivo di responsabilità personale e sociale.

Giovani, perciò, aperti e appassionati alla vita, disposti al sacrificio. Capaci di “avventura”, sapendo che la parola avventura nasce dal latino dei Franchi come un neutro plurale, “ad ventura”, cioè “le cose che ci vengono incontro”. Ma, attenzione, le cose ci vengono incontro solo a patto che andiamo verso di loro. Serve un protagonismo giovanile diverso da quello del ’68, quel ’68 che ha riempito tutto il nostro frasario di tante e troppe parole d’ordine, e che si è reso responsabile in positivo della rottura verso un passato vecchio, ma che, in negativo, ha creato le condizioni delle nostre attuali contraddizioni fatte di centralismo, assistenzialismo, benessere finanziato dalle generazioni future.

Noi auguriamo a tutti i nostri giovani di coltivare il gusto di “andare verso le cose”, al di là dei limiti delle nostre famiglie e del “familismo statale”; anche dei limiti della nostra scuola, della nostra università, di un mondo del lavoro che continua a privilegiare i garantiti e non, ci perdoni il ministro Profumo, i più meritevoli.