Stiamo discutendo di come sia possibile insegnare la grammatica, cioè il modo in cui la lingua funziona, a tutti gli studenti, anche e soprattutto quelli che non studiano il latino. Una collega, in prima fila, domanda: “Ma siamo certi che anche gli studenti dell’istituto professionale abbiano diritto (cioè bisogno, interesse, parafrasa lei) a sapere quale sia il soggetto in una frase? Non è che magari hanno scelto l’istituto professionale proprio perché di certe cose a loro non importa nulla?”



Istintivamente mi ribello ad una posizione del genere: capisco che non corrisponde alla mia natura, ma non so “argomentarlo”, non so dire perché. Continuo a pensarci, e lentamente la cosa mi si chiarisce. Lo studio della grammatica mi affascina perché il linguaggio è uno strumento potentissimo, che l’uomo e solo l’uomo ha, per dire la realtà, cioè per conoscerla. Allora sapere come funziona il linguaggio significa possedere sempre di più un mezzo di conoscenza della realtà, e dunque avere una possibilità di un sempre più profondo e consapevole rapporto con essa. E poiché, come ho imparato da don Giussani, l’avventura più interessante per l’uomo è proprio la conoscenza della realtà, perché da questa avventura dovrebbero essere esclusi i ragazzi dell’istituto professionale? O almeno dalla proposta di questa avventura?



Ecco la questione: insegno – e lo insegnerei anche ai ragazzi del professionale – come individuare il soggetto in una frase perché non posso fare a meno di farlo, cioè perché ho capito che anche attraverso la conoscenza di questo pezzo di realtà cresce la consapevolezza che ho di me stessa e del mondo. E non posso non additare pure allo studente questo dato, non posso non dire anche a lui: “Guarda che cosa c’è qui!”.  

La Convention è stata un momento di forte riproposizione di questo modo di porsi nella realtà e perciò nella scuola. È vero: il sistema scolastico italiano è ormai quasi giunto al collasso, o all’implosione, che è lo stesso. Ma il fallimento della struttura non implica né coincide con il fallimento umano e professionale delle persone che in essa lavorano. Il sistema andrebbe ripensato, forse, dalle fondamenta, ma è altresì evidente che nessun sistema, per quanto perfetto, può sostituirsi alla persona, può rendere inutile o indifferente il modo in cui io svolgo il mio lavoro. 



Anche se, a proposito di sistemi che rendano inutile la figura dell’insegnante, forse il ministro Profumo ha qualche idea, stando a quanto da lui stesso affermato durante il collegamento in diretta con la Convention. Quella che ha in mente il ministro non è infatti una scuola, è un centro civico, come lui stesso ha dichiarato: le attività che dovrebbero svolgersi in esso, per quanto “interessantissime” (sic Profumo dixit) –anche se non meglio precisate −, sembrano più volte a riempire il tempo di giovani e adulti che non a proporre e verificare un percorso di affronto critico e appassionato della realtà.

 

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