Le analisi si susseguono, continuano a sfornare dati severi e preoccupanti, che vanno a parare quasi sempre lì: tanti Neet – i giovani che non studiano e non lavorano -, scarsi investimenti in istruzione, mancato incontro tra scuola e mondo del lavoro, risultati degli appendimenti inferiori agli standard internazionali. Per Norberto Bottani, per anni all’Ocse e ispiratore di Education at a Glance, è la stagnazione la caratteristica più grave della scuola italiana. «Non è cambiato quasi nulla in 20 anni a questa parte», dice a IlSussidiario.net. Per Bottani le responsabilità più gravi sono della Grande Incubatrice. Una cattiva idea che, al contrario dei soldi, non dipende dalla crisi.
Bottani, l’Italia non investe in istruzione. Del resto, c’è crisi.
I dati presentati quest anno in Education at a glance, che riguardano quelli immediatamente successivi al 2008 e cioè il 2009 e il 2010, sono interessanti perché dimostrano che in realtà la crisi economica ha avuto un’incidenza leggera sull’istruzione, almeno agli inizi della crisi, in quasi tutti i Paesi (cfr. indicatore B2). Per esempio, nel 2009 i Paesi dell’Ocse hanno speso in media il 6,9% del Pil per l’istruzione (occorre notare che l’importo di spesa era stato votato nell’autunno 2008, quindi agli albori della crisi), che solo cinque Paesi avevano speso meno del 5% del Pil per l’istruzione (tra questi cinque si trova evidentemente l’Italia), che tra il 2000 e il 2009 l’Italia non ha modificato la spesa per l’istruzione. Ora, è bene ricordare che senza spese supplementari non si modifica quasi nulla. La cosa ancor più singolare è che l’Ocse, a differenza degli anni passati quando il segetario generale firmava sempre l’editoriale della pubblicazione, quest’anno non commenta questo fatto. Così, dal documento non si riesce a capire se il calo riscontrato nei sistemi scolastici esaminati sia una conseguenza della crisi economica o sia piuttosto una scelta politica.
Lei cosa dice?
La mia opinione personale è che sia una scelta politica. In altri termini, credo che la diminuzione negli investimenti in istruzione sia solo in misura minore imputabile alla crisi economica, e che laddove invece è più marcata, questo sia dovuto a una scelta politica.
Uno dei dati positivi riguardanti l’Italia riguarda i laureati: sono aumentati.
Però l’Italia, purtroppo, spicca anche per numero di abbandoni e per numero di Neet (23%, ndr). Avevo già criticato l’insistenza con la quale l’Ocse negli anni scorsi aveva incitato i Paesi membri ad aumentare le iscrizioni alle università e agli istituti superiori non universitari. Che non sono la stessa cosa, perché ritengo che una società migliori non soltanto se ha alti tassi di laureati, ma se a tutti i livelli di istruzione la proporzione di diplomati cresce. Inoltre, ci sono occupazioni che reclutano diplomati non universitari senza svantaggi di retribuzioni, quindi a condizioni vantaggiose. Mi sembra che quest anno l’Ocse abbia messo una sordina a questa teoria e la cosa mi fa piacere.
L’Ocse però ha dato rilievo a questo dato positivo del nostro Paese.
È vero: non ha resistito alla tentazione di felicitare l’Italia per il leggero aumento del numero degli studenti universitari. Il che per me non è molto convincente, perché tutti gli altri dati dell’Italia sono preoccupanti. L inefficienza del sistema scolastico italiano balza all’occhio tranne forse che su questo punto. È stata una captatio benevolentiae!
Qual è il primo fattore di crisi del nostro sistema scolastico?
La stagnazione: non è cambiato quasi nulla in 20 anni a questa parte. Quando dico stagnazione, penso appunto all’altissima percentuale di giovani che escono dal sistema scolastico senza niente in mano (+3,8% dal 2008 al 2010, ndr). Da questo punto di vista l’Italia è a livello «greco»: quasi un quarto della popolazione giovane abbandona qualsiasi tipo di istruzione senza aver nulla di spendibile sul mercato del lavoro.
Secondo lei la formazione tecnico-professionale è la strada giusta per ridurre questa percentuale preoccupante?
Direi di no… se non altro per auspicare un cambiamento: è una opzione di cui sento parlare da anni. Il risultato, purtroppo, non è convincente: pochi investimenti, pochi casi eccellenti. Il mercato del lavoro italiano è saturo di una manodopera potenziale a buon mercato non qualificata.
Questo dipende dal fatto che il sistema scolastico non è in grado di rispondere un bisogno che non riesce a interpretare, o cos’altro?
La risposta è più complessa. In parte dipende dalla tendenza − che gli indicatori Ocse rilevano da vent’anni − dell’istruzione italiana a tenere i giovani nell’incubatrice scolastica a lungo, scimmiottando in un certo senso il modello francese e funzionando come «luogo secondo», mondo a parte, altro dal «mondo primo» che è quello del lavoro. E poi, speculare a questo primo aspetto, c’è la difficoltà dei due mondi, quello della scuola e del lavoro, ad incontrarsi e a parlarsi. Infine mi viene da supporre che il mondo del lavoro italiano, che non conosco, funzioni in un modo tale da adeguarsi alla situazione e al tipo di preparazione degli studenti. Altri Paesi − Svizzera, Germania, Danimarca − hanno promosso forme di apprendistato per i giovanissimi che a voi mancano. Anche la Francia lo sta facendo con grande fatica, in primis per ricuperare una parte del 20% dei Neet che si ritrova e poi per neutralizzare, senza dichiararlo, gli effetti dello slogan «80% di una fascia d’età con la maturità».
Lei dice che il problema è la formazione professionale, però occorre anche dire che questa è di competenza delle Regioni e di conseguenza non viene rilevata da analisi come quelle di Eag.
Questo è vero. È anche vero che adesso qualcosa si sta muovendo, so che si è deciso di potenziare molto il canale della formazione tecnica e professionale. È la strada giusta, è lì che occorre investire. Mi domando se ci siano i fondi per poterlo fare.
In Italia è in diminuzione la quota di spesa pubblica destinata all’istruzione ma è in crescita la quota di spesa proveniente da privati. È un fattore positivo o negativo?
È assolutamente negativo. Se si pensa all’effetto calmierante che dal punto di vista sociale ha il servizio pubblico di istruzione, non è una buona cosa.
Ma non è sintomo di una maggiore coscienza della società civile?
No. È attribuibile al fatto che persone e famiglie, di fronte alla carenza degli investimenti pubblici, ci devono mettere del proprio. Non è quindi un valore aggiunto, ma la compensazione di una insufficienza.
Un commento su due dati: il nostro tempo scuola, superiore a quello degli altri Paesi europei, e la diminuzione del valore reale degli stipendi dei docenti.
Questi sono i dati che si trovano nella sezione D dell’insieme e in particolare nell’indicatore D1. Il primo è la conferma di quel che dicevo prima. Il tempo scuola elevato non è il prodotto di una consapevolezza maggiore dell’importanza dell istruzione, ma il frutto di una malintesa politica sociale che tiene a scuola i giovani perché così sono più protetti. Non è una cosa qualitativamente benefica. Nella stracitata Finlandia stanno a scuola molto di meno: in media 856 ore tra i 7 e i 15 anni, in Italia 1089 ore, più o meno un mese di più a scuola, e imparano di più. Quindi non c’è un rapporto tra ore di insegnamento e qualità degli apprendimenti.
E degli stipendi cosa dice?
Quelli dei docenti italiani sono al di sotto della media Ocse − 38.280 dollari Usa in media nei 21 Paesi dell’Ue dopo 15 anni di insegnamento nella scuola media, contro 32.658 euro in Italia −, è vero, però non sono gli ultimi in Europa. Il problema è che lo sono in rapporto alle ore di scuola che i docenti devono fare.
Se volessimo cambiare la «scuola-incubatrice», c’è un modello al quale potremmo ispirarci?
Questo punto è fondamentale: nell’istruzione non c’è nessun modello! Le soluzioni devono essere inventate in Italia guardando alla struttura del mondo italiano, alla sua cultura e alla sua storia. Eag è uno sguardo comparato di sistemi scolastici organizzati diversamente, e questo dimostra che si può governare la scuola in molti modi e ottenere buoni risultati con soluzioni diverse. Ma si può anche anche andare a fondo come il Titanic.
Lei è il padre di Education at a Glance. L’edizione di quest anno è stata quella del ventennio. Quali sono le sue impressioni?
Per me l’uscita del Rapporto è sempre un avvenimento importante, perché dimostra che l’indagine si è ormai istituzionalizzata. Ma quando è nata non era per nulla accettata, né all’interno dell’Ocse né tanto meno nella stragrande maggioranza degli ambienti educativi.
Per quali ragioni?
Per le resistenze, strenue e consolidate, contro qualsiasi tentativo mirante a oggettivare con dati empirici l’andamento dei sistemi scolastici. Vi è a monte l’idea perniciosa che quanto avviene nelle scuole non è misurabile. O che è perfino incommensurabile per natura.
C’è l’impressione che, a parte gli articoli di rito, le informazioni contenute nel rapporto non riescano ad interessare i non addetti ai lavori. Perché secondo lei?
Sono informazioni che in linea di massima non interessano alla gente perché sono difficili da capire e sono presentate spesso in uno stile molto statistico. La presentazioni dei dati è un problema scottante, sin dall’inizio della pubblicazione. Il fatto più problematico, però, è che l’opinone pubblica coltiva immagini arcaiche del sistema scolastico. Per esempio, che l’Italia è indietro ma non troppo, e che quindi, tutto sommato, sta bene lì dov’è − chi non ha difficoltà?; oppure, che i Paesi nordici sono all’avanguardia. Spiegare questa mentalità è più difficile.
Lei cosa pensa?
Chi ha figli a scuola ha una conoscenza diretta ma pratica delle scuole e lì si ferma; sa quel che vede e gli basta. Invece chi non ha figli a scuola ha il ricordo della scuola che ha frequentato tanti anni fa e con quello va avanti. In questo secondo gruppo metterei la classe politica.
In Italia il ministro Profumo vuole fare delle nuove tecnologie la leva per cambiare la scuola. È la strada da percorrere?
Potrebbero forse aiutare, ma se pensiamo alle dimensioni del sistema scolastico italiano − 800mila insegnanti, più di un milione di studenti… − vengono i brividi a pensarci. No, non si risolvono i problemi strutturali del sistema scolastico italiano, che si trascinano da decenni, con le nuove tecnologie. Per uscire dalla stagnazione serve altro.