Si possono usare due criteri di valore per giudicare un provvedimento legislativo, che è sempre la risultante di un compromesso interno di forze variegate di maggioranza. Il primo è quello della “distanza dal punto di partenza”. Il secondo è quello della “distanza dal punto di arrivo”. Il primo è attento alle compatibilità interne delle forze politiche; il secondo è più sensibile alle urgenze della società e del mondo “là fuori”. Nei Paesi dove la distanza tra i due punti non è drammatica, si possono incrociare i due criteri. Nel nostro Paese, dove la distanza tra le necessità di cambiamento segnalate dal mondo “là fuori” e le risposte della politica tende a dilatarsi, è paradossalmente più difficile accontentarsi di qualche passo dal punto di partenza, assumendo come criterio quello dell’appartenenza al mondo politico.
È questo è il caso del giudizio sul progetto di legge 953, approvato il 10 ottobre 2012. Nato da un’iniziativa audacemente riformista dell’on. Valentina Aprea, prima firmataria, il testo della legge si sviluppava originariamente sotto il titolo di “Pdl n. 2292 del 22 febbraio 2007 – Norme per l’autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di scelta educativa delle famiglie, nonché per la riforma dello stato giuridico dei docenti”. Delineava il profilo di un’autonomia pressoché completa delle scuole, che sarebbero state governate da un consiglio di amministrazione e potevano trasformarsi in fondazioni. Ma, soprattutto, definiva le condizioni concrete della realizzazione dell’autonomia, di cui una decisiva: un nuovo stato giuridico e nuove modalità di assunzione (Albo regionale e concorso di istituto) del personale docente.
Il testo rimase confinato nel limbo, sopraffatto da una virulenta campagna della sinistra politica e sindacale, allora al governo con Prodi-Fioroni, contro le minacce di aziendalizzazione e di privatizzazione della scuola italiana. All’indomani della nuova legislatura, la XV – governo Berlusconi III e ministro dell’Istruzione Gelmini – il testo venne immediatamente ripresentato dall’on. Aprea il 12 maggio del 2008, e riclassificato con il numero 953. Si trattava di un gesto politico inequivocabile. Ma la Gelmini, nella troppo lunga attesa di capire in quale direzione rivolgere la prua (già Seneca aveva maliziosamente osservato un paio di millenni fa che “ignoranti quem portum petat nullus suus ventus est” – a chi non sa verso quale porto dirigersi, nessun vento è favorevole), lo mantenne nel limbo.
Quando finalmente la maggioranza di governo lo prese in mano, si aprì alla Camera un duplice fronte: uno, insidioso, all’interno della maggioranza stessa; l’altro, più prevedibile, con l’opposizione. Le obiezioni di quest’ultima erano quelle di sempre. All’interno della maggioranza, le posizioni conservatrici di UdC e di An e di quelle leghiste della… Lega (l’assunzione dei docenti subordinata ad un controllo “ideologico” regionale, che accertasse la compatibilità culturale del docente con il territorio) finirono per paralizzarne l’iter. Che è ripreso solo dopo la caduta di Berlusconi e l’avvento del governo Monti. Il nuovo testo mantiene la numerazione, ma ha cambiato titolo e ha circoscritto di molto l’orizzonte: “Norme per l’autogoverno delle istituzioni scolastiche statali”. Si tratta del testo unificato, elaborato in sede legislativa e approvato dalla VII Commissione della Camera il 10 ottobre 2012.
Annamaria Poggi ne ha già fatto l’analisi dal punto di vista giuridico-istituzionale. Eugenio Gotti ha invitato, nel suo intervento successivo, a non indulgere a posizioni massimalistiche e a valorizzare “il buon passo in avanti” verso un’autonomia effettiva, che oggi non c’è. Paola Tonna sostiene che, comunque, rimette al centro le scuole e l’intreccio tra autovalutazione e valutazione esterna delle scuole. Una novità c’è: la conferenza di rendicontazione, che può diventare un’occasione di rendicontazione sociale, come ha già sottolineato Annamaria Poggi, e perciò di collegamento con il territorio. Per il resto, l’esperienza di quest’ultimo decennio dice l’esatto opposto: che è stata la valutazione esterna a trainare − pochissimo! − verso l’autovalutazione.
In ciò, d’altronde, era consistita l’innovazione della Moratti rispetto a Berlinguer. È la valutazione esterna, via Invalsi, che ha fatto crescere, un po’ “spinte” e un po’ “sponte”, la cultura della valutazione. Quanto all’autonomia statutaria, si presenta già troppo minuziosamente definita dalla legge, che stabilisce organi e competenze. I membri esterni del consiglio per l’autonomia possono essere aggiunti, ma non hanno diritto di voto. E gli esperti del nucleo di autovalutazione? Ottima idea. Peccato che non siano pagati neanche con due fichi secchi. La verità, che Paola Tonna ricorda, è che la sinistra, ora nella maggioranza di governo, l’autonomia non la vuole, perché ha in mente il modello statale-impiegatizio del proletariato pubblico docente. Se gli insegnanti fossero dei professionisti, non ci sarebbero più i sindacati, ma le associazioni professionali. Autonomia statale-funzionale, profilo “proletario”, rifiuto della valutazione sono tutt’uno. Il pdl 953, nuova versione, non esce da questo binario. Sgradevole verità a riconoscersi, ma è lì da vedere. È una sconfitta per il fronte riformatore, ma negarla non aiuta a uscirne. Se è un pollo, non si può cambiargli natura, con la fratesca ingiunzione: “ego te baptizo piscem!”.
Le novità di cui parla Gotti sono in realtà molto… vecchie. Si tratta della superfetazione burocratica di organismi quali il consiglio nazionale delle autonomie scolastiche, la conferenza regionale del sistema educativo, la conferenza regionale territoriale. A parte i sospetti di incostituzionalità, avanzati da Anna Poggi, quel che colpisce è il riproporsi qui della filosofia della legge delega n. 447 del 30 luglio 1973, che approdò ai cosiddetti Decreti delegati, dei quali il n. 416 del 31 maggio 1974 definiva gli Organi collegiali. Oltre a quelli interni alla scuola, che il pdl 953 riprende, mutato nomine, furono previsti: il distretto scolastico, il consiglio scolastico distrettuale, il consiglio scolastico provinciale, il consiglio scolastico regionale, quale organo dell’Ufficio scolastico regionale, il Consiglio nazionale della Pubblica istruzione (Cnpi). Comunque, constatata nel giro di venticinque anni – tanti ce ne sono voluti! − l’inutilità di tali organismi, essi furono aboliti dal Decreto legislativo del 30 giugno 1999, che riformava gli Organi collegiali. Il Cnpi doveva essere sostituito da uno più snello, con un numero dimezzato di componenti. Non accadde nulla. Oggi è ancora là, ed è composto al 95 per cento di sindacalisti. È la vera Camera delle Corporazioni della scuola italiana, rappresentanza di un potente blocco conservatore, che nessun governo sedicente liberale è riuscito a incrinare.
L’esigenza di aprire la scuola al territorio sociale, civile, produttivo e alle sue rappresentanze istituzionali è fondata, si intende. Ma la ragione della cosiddetta autoreferenzialità delle scuole non sta nella mancanza di passerelle istituzionali tra scuola e territorio. Le inadempienze dello Stato e delle Regioni, i ritardi della Conferenza Stato-Regioni – che è ripartita solo recentemente – nell’attuazione del Titolo V vi contribuiscono. Ma la ragione di fondo è interna al sistema scolastico: l’autonomia delle scuole nasce già blindata dall’amministrazione statale-ministeriale. Si tratta di autonomia funzionale, non di un’autonomia reale. Un conto, infatti, è un’autonomia, quale decentramento controllato dell’amministrazione ministeriale, e un conto è l’autonomia quale espressione istituzionale della comunità educante e della società civile dentro e fuori le mura scolastiche.
Ciò che impedisce all’autonomia sostanziale delle scuole di dispiegarsi in libertà e responsabilità istituzionalizzata a favore del bene comune educativo dei ragazzi è l’assetto amministrativo attuale, che fa a pugni non solo con la logica dell’autonomia costituzionale prevista dal Titolo V, ma anche con il Dpr n. 275 del 1999, non a caso rimasto lettera morta. Una ricerca della Luiss di qualche anno fa segnalava che solo l’8 per cento delle scuole aveva preso sul serio l’autonomia, sia pure nella versione funzionale. Ora, nell’originario pdl 2292 del 22 febbraio 2007 l’autonomia sostanziale era presente. Nell’attuale pdl 953 non c’è più.
Resta un ultimo interrogativo: perché alla fine, direbbe Orazio, il tutto desinit in piscem? In primo luogo, le divisioni culturali e politiche interne al governo Berlusconi così come la ricerca ossessiva della Gelmini dell’accordo con la sinistra politica e sindacale hanno paralizzato l’iter. Cambiato il quadro politico, ha avuto il sopravvento la cultura stato-dipendente della sinistra tradizionale politica e sindacale e della sinistra democristiana. Cultura che viene da lontano, dagli anni 70, e che progettò i Decreti delegati. Ma c’è stata anche una pressione specifica delle scuole autonome, riunite, in alcuni territori, in associazioni autonome. Queste hanno incominciato a rivendicare un riconoscimento nazionale analogo a quello dei Comuni – l’Anci − e a quello delle Province – l’Uppi.
Non è qui il luogo per fare un bilancio di queste esperienze. È certo, tuttavia, che le autonomie scolastiche non hanno bisogno di un carrozzone nazionale, destinato a diventare palestra per ambizioni e manovre politico-partitiche, che con la scuola non c’entrano per nulla. Se proprio i partiti tenessero davvero all’autonomia scolastica, dovrebbero far saltare la bardatura amministrativa che avvolge il sistema educativo nazionale, piuttosto che costruirvi sopra, all’unanimità, una burocratica piramide di Cheope.
Intanto, resta che il pdl 953 del 10 ottobre 2012 va in direzione opposta rispetto al pdl 2292 del 22 febbraio 2007.