Le risposte alla lettera aperta nella quale si chiedeva ai sindacati della scuola di esplicitare la strategia complessiva che ha portato alla conferma dello sciopero del 24 novembre sono arrivate. Bisogna dare atto a tutti gli interlocutori della serietà con la quale sono stati presi in considerazione gli interrogativi posti, che a parte tutto, sebbene Giorgio Rembado nel suo articolo li definisca non adeguati (“non esistono risposte giuste a domande sbagliate”), hanno consentito di aprire un ventaglio di opzioni dalle quali adesso farebbe fatica a prescindere chi nella scuola intenda muoversi non solo a difesa della propria condizione lavorativa, ma anche a promozione della professione docente.



I giudizi espressi in merito all’arma dello sciopero e allo sfondo nel quale si colloca sono diversi: addirittura molto variegati, talvolta quasi opposti. Se non sullo sciopero, sicuramente sugli scenari antecedenti e le prospettive che in seguito si aprono. Una difformità che è indicativa delle matrici culturali differenti cui si ispirano le varie organizzazioni, che però si stemperano nella protesta antigovernativa che unisce a valle ciò che non è unito a monte. 



Le discordanze più evidenti si riscontrano a proposito della identità del docente: funzionario o professionista? La Cgil paventa l’eventualità di leggi e circolari lasciate sole “a definire lo stato giuridico del personale, i suoi diritti e doveri”: in questo caso, dice, avremo sì una visione impiegatizia del rapporto di lavoro. Anche lo Snals teme, un poco paradossalmente data la sua origine autonoma rispetto alla “triplice” sindacale, quella “gerarchizzazione dei docenti” che potrebbe derivare da proposte di legge (evidente il riferimento alla scorsa legislatura) in cui sono state effettuate “incursioni nelle materie contrattuali”. La Cisl, da parte sua, punta a fare perno sul contratto di lavoro (e quindi sul metodo contrattuale) al quale non sarebbe estranea “l’esplorazione di altre e diverse modalità di riconoscimento e valorizzazione delle professionalità”. Si smarca la Uil quando riferisce di “tante scuole e tanti insegnanti che hanno di fatto praticato esperienze molto significative di articolazione della funzione docente, dalla ricerca didattica, al tutoraggio, alla formazione in servizio, al coordinamento dei processi innovativi”. Ragione per la quale “si possono prevedere attività che rappresentino una vera carriera che non prefiguri il far altro dall’insegnamento”. Di ben altro tenore la prospettiva del sindacato Gilda, che “ad ottobre 2011 era riuscito a far approdare in Parlamento ben due disegni di legge e uno di essi era mirato all’istituzione  di un’area specifica di contrattazione per gli insegnanti”. 



In sintesi, sulla valorizzazione della professione o carriera del docente, materia delicata che implica valutazione esterna e autovalutazione (riassunta in termini lapidari da Anp con le parole “chi si impegna e contribuisce alla vita ed allo sviluppo dei propri studenti e della propria scuola progredisca più in fretta nella carriera”), i sindacati si dicono aperti ad una revisione del contratto di lavoro, che per gli insegnanti è attualmente un monstrum privatistico-pubblicistico, fino a includere in esso articolazioni di competenze e di profili.

È proprio a questo punto che sorgono i problemi perché si tratta di capire, e non è affatto chiaro, se una eventuale carriera debba svolgersi all’interno dell’unica area della “funzione docente” o tra diverse aree della medesima professione che implicherebbero fasce di merito (e di stipendio). Non ci pare che i sindacati della scuola siano particolarmente impegnati a fare chiarezza su questi punti.  

Temiamo manchi un metodo. E qui veniamo allo sciopero del 24 e alle azioni ad esso collegate. Non c’è dubbio che si tratti solo di uno sciopero di protesta e ben poco o quasi nulla di un gesto di proposta. Una volta rientrato il progetto governativo di prolungare l’orario di servizio agli insegnanti fino a 24 ore senza beneficio economico (ma la Gilda consiglia di “continuare a vigilare”), la contestazione si dirige verso i tagli all’istruzione (d’altra parte sempre effettuati dagli ultimi governi di destra e di sinistra) e soprattutto la dissennata politica del blocco dei rinnovi contrattuali e degli scatti di anzianità. 

Tutto legittimo, sennonché manca qualunque accenno a come lo si voglia intraprendere questo percorso nella direzione di un nuovo contratto, più agile, più flessibile, più adeguato alla modernizzazione della scuola e alle responsabilità vecchie/nuove che competono ai docenti. Manca un metodo. Che consisterebbe nel dare voce a chi la scuola effettivamente la fa ogni giorno, assumendosi dentro la condizione del rapporto quotidiano con gli alunni e le coordinate di tipo strutturale e organizzativo precise responsabilità che incrementano creativamente l’immagine di scuola, la didattica, il rapporto con il territorio. Non per altro, ma una nuova e diversa condizione giuridica e professionale metterebbe i docenti che hanno scelto di “dare di più” per la scuola di essere un valore aggiunto per tutto il sistema educativo e formativo. Invece è come se si temesse la loro presenza. Quasi implicassero o richiamassero una pretesa giudicata eccessiva. Ma se l’educazione dei giovani non vive di slanci e dedizioni reciproche, di che cosa vive?  

La mobilitazione di questi giorni resta monca se non include una visione più ampia della scuola e dell’insegnamento non ristretta a logiche puramente economicistiche, come quelle proprie della manovra governativa, cui in qualche modo le proteste risultano subordinate, per quanto successo abbiano. Ricerche recenti avallano l’ipotesi che la condizione dei docenti in questi ultimi anni sia profondamente cambiata: non solo per una più chiara consapevolezza dei diritti da parte dei diretti interessati, ma anche per l’attesa di un maggiore grado di autonomia della scuola e di interpretazione del proprio ruolo. 

Sarebbe proprio il caso che questi desideri non fossero annullati o ridotti a rivendicazioni passeggere. La strada è ancora lunga, ma il soggetto disposto a camminare esiste. Si tratta di docenti e scuole che non hanno atteso programmi palingenetici per mettersi a lavorare insieme e tradurre i legami reciproci in forme di giudizio e aiuto nella didattica o nella conduzione dell’istituto. Occorre tenerne conto. 

 

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