L’applicazione della spending review approvata quest’estate entra nel vivo: entro il 31 dicembre le amministrazioni dello Stato dovranno riorganizzarsi per rendere operativo il taglio del 10% delle direzioni generali e del 20% degli uffici dirigenziali. Per quanto riguarda il Miur, nelle ultime settimane sono trapelate sulla stampa diverse anticipazioni della riorganizzazione, tutte riportanti il taglio della “Direzione Generale per l’istruzione e formazione tecnica superiore e per i rapporti con i sistemi formativi delle Regioni” (d’ora in avanti Dg Ifts).
Contro questa eventualità si è attivata in particolare Confindustria, con una serie di articoli pubblicati sul Sole 24 Ore, l’ultimo dei quali – sul quotidiano del 31 ottobre – ha raccolto l’appello di alcuni autorevoli esponenti politici, quali Beppe Fioroni e Mariastella Gelmini (ex ministri proprio all’Istruzione), nonché delle parti sociali, come Santini della Cisl e Lo Bello della stessa Confindustria.
La notizia stimola una riflessione più ampia sul più generale ruolo del Governo nazionale in materia di istruzione e sulle modalità organizzative più efficaci per esercitarlo. Che il governo dell’istruzione nel nostro Paese stia vivendo una fase di cronica incertezza (dall’approvazione della riforma costituzionale del Titolo V del 2001) è dimostrato anzitutto dal numero di riorganizzazioni subite negli ultimi 10 anni; quella in discussione sarà la quarta. E se qualche attenuante può essere riconosciuta alle crescenti difficoltà di questa antica istituzione, credo proprio si debba partire da questo dato. C’è la sensazione che la classe politica, ossia il soggetto che decide come e quando riorganizzare, non solo non abbia le idee chiare sul modello di governo del settore, ma nemmeno disponga della consapevolezza sulle implicazioni organizzative che ogni mutamento di assetto comporta: azzeramento a cascata di tutti gli incarichi, ridefinizione degli obiettivi, riformulazione dei capitoli di bilancio e loro imputazione ai nuovi centri di costo…). Insomma, 4 riorganizzazioni generali in 10 anni avrebbero devastato anche una struttura giovane e dinamica, figurarsi il Miur, che vive da anni una forte crisi, articolabile sotto almeno due distinti livelli.
1. una crisi di identità istituzionale. Dalla riforma del Titolo V in poi il Miur ha dovuto – spesso malvolentieri – confrontarsi con il sistema regionale, senza conoscere con la dovuta chiarezza i rispettivi ambiti di competenza e le correlate responsabilità istituzionali. In questi anni ha fatto senz’altro eccezione la direzione generale in questione, che ha saputo – più in termini pragmatici che “in punta di diritto” – costruire una proficua relazione con le Regioni, soprattutto sul terreno della “istruzione e formazione professionale” (IeFP), materia introdotta nel nostro ordinamento direttamente dalla legge costituzionale n. 3/2001; anzi, forse proprio questa caratteristica di assoluta novità ha indotto direzione generale e Regioni ad un confronto costruttivo, che ha portato alla creazione di un vero e proprio “sistema”, frequentato da oltre 240mila ragazzi tra i 14 e i 18 anni, che rilascia 22 qualifiche triennali e 21 diplomi quadriennali regionali ma con valore nazionale, essendo l’offerta formativa presidiata da standard minimi condivisi a livello nazionale.
2. Una crisi di risorse umane. Basta girare per gli austeri corridoi del ministero per accorgersi che dove un tempo lavoravano 4-5 funzionari per stanza, oggi spesso si trova una sola persona (anche su questo tema è intervenuta la spending review, definendo standard di riferimento per il numero di metri quadrati/dipendente…). Ma oltre a questo aspetto quantitativo, forse è ancora più grave la crisi delle competenze possedute dai funzionari e dai dirigenti Miur, personale reclutato a suo tempo per la gestione di procedure fortemente standardizzate, al 90% connesse alla gestione del personale delle scuola (docente e non): per dare in breve un’idea della complessità e dell’enormità del fenomeno, basti considerare che – nonostante si imponga alle famiglie di effettuare le scelte per il settembre successivo con 8 mesi di anticipo – l’anno scolastico comincerà in tanti casi con cattedre ancora vuote. Anche su questo aspetto un momento decisivo può essere individuato nella riforma del Titolo V, che ha riconosciuto valore costituzionale all’autonomia delle istituzioni scolastiche; ciò comporta – in modo speculare – che al ministero centrale viene richiesto di svolgere mansioni molto distanti dalle tradizionali (e rassicuranti) “procedure”: occorre un ruolo di indirizzo e “propulsione”, a monte, e un ruolo di controllo (dei risultati, non della correttezza procedurale!), a valle.
Mentre quasi tutte le direzioni generali del Miur provengono dalla tradizione “gestionale” appena richiamata, la Dg Ifts non si è mai dovuta occupare di gestione del personale scolastico, lavorando piuttosto su come “portare a sistema” processi formativi innovativi, a livello secondario e post-secondario, in connessione con i fabbisogni del mondo produttivo e dei territori: ciò ha sviluppato capacità progettuali attente agli esiti formativi ed alla loro “messa in trasparenza” rispetto al mondo del lavoro e delle professioni. Il sistema di IeFP sopra richiamato, i nuovi percorsi degli Istituti tecnici e professionali, l’alternanza scuola-lavoro, gli Istituti tecnici superiori, i costituendi Poli tecnico-professionali sono tutte esperienze per le quali un ruolo decisivo è stato giocato dalla Dg Ifts, certamente agevolata dalla costante attenzione degli ultimi quattro ministri.
Sarebbe quindi giunto il tempo di interrogarsi sull’adeguatezza del modello organizzativo in uso (che risale all’unità d’Italia) piuttosto che sul numero (e il nome) delle direzioni da tagliare. Ci sarebbe da discutere sulla necessità di mantenere in uso il modello organizzativo dipartimentale, che allunga ulteriormente la linea gerarchica, così come sulla previsione di una direzione generale periferica anche per Regioni con una popolazione scolastica inferiore a quella delle grandi città italiane prese singolarmente. Ma, stante l’urgenza di ridurre del 10% le direzioni generali dell’attuale assetto, sembrerebbe poco ragionevole adottare come criterio di selezione il “numero di pratiche lavorate” (esempio sempre presente nelle varie ipotesi di controllo di gestione periodicamente prese in considerazione), quanto piuttosto le competenze istituzionali richieste dal contesto, presente e futuro.