«Ho voluto andare ad una manifestazione: i compagni, la lotta di classe, tante cose belle, che ho nella testa ma non ancora nella pelle». Basterebbe conoscere un po’ di storia, della nostra storia recente che Giorgio Gaber ha raccontato con tanta intelligenza, per non lasciarsi ingannare dalle manifestazioni di queste settimane. Che nelle scuole arrivano ciclicamente ogni autunno, rituali come la vendemmia e le castagne, ma lasciano soltanto un cumulo di macerie. 



E che, quando non si esprimono in violenza come è successo a Roma e a Torino (del resto «ti è mai venuto in mente che a forza di gridare la rabbia della gente non fa che aumentare? Non mi devi giudicare male, anch’io ho tanta voglia di gridare, ma è del tuo coro che ho paura, perché lo slogan è fascista di natura», cantava Daniele Silvestri), diventano per qualcuno voce da far sentire nelle piazze (e a chi poi? alle panchine? alle fontane?), ossia ideologia (ma «un’idea, finché resta un’idea, è soltanto un’astrazione: se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione», continua Gaber), per la maggioranza fuga dall’impegno scolastico, giustificazione del niente, ore di noia. È con dolore che ho dovuto vedere, alle 8 di tante mattine, fuori da scuola, che in fondo quasi nessuno decideva liberamente se entrare o no: era l’ambiente a decidere al posto tuo. 



I professori che hanno bloccato le attività extra hanno usato un codice linguistico comprensibile soltanto nel mondo sindacale della scuola. Chiunque non appartenga a quel mondo, invece, quando sente che per protestare contro un ministro si tolgono dei servizi agli studenti, pur sforzandosi non riesce proprio a capire: è come se per protestare contro la Pampers io decidessi di non cambiare i pannolini ai miei figli (per un anno). Fatto sta che le lamentele hanno generato confusione, e un ritmo di lavoro singhiozzante (oltre al fatto che assemblee su assemblee non hanno nemmeno chiarito il cosiddetto ddl Aprea). La protesta potrebbe essere riassunta con le parole vecchie di un secolo di T.S. Eliot: «Essi cercano sempre di evadere dal buio esterno e interiore, sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono». 



A me pare che, così com’è impostata adesso, sia inutile «difendere la scuola pubblica» (sempre contrapposta alla scuola non statale da chi parla tanto di legalità ma forse non conosce neanche la Costituzione), perché francamente è indifendibile sotto molti aspetti. Il corporativismo dei docenti, spesso unanimemente contro (e ormai evidentemente preoccupati più di far riuscire la protesta e allargare il consenso che di ottenere qualche risultato concreto) mi pare ridicolo se anche solo penso che quasi mai, quando vado a insegnare latino in una classe nuova, trovo che l’abbiano studiato a livelli minimi negli anni precedenti. E mentre, come tanti altri sistemi, la scuola frana, non è il momento storico di sognare sistemi perfetti: adesso è il tempo delle singole persone (che forse domani ricostruiranno anche i sistemi, ma questo per ora non ci riguarda). 

Io vorrei soltanto raccontare di alcune persone che non hanno sognato in chissà quale futuro un sistema perfetto, che hanno protestato non contro qualcuno, ma per qualcuno. Che hanno mostrato in queste settimane come la vera rivoluzione non stia nei cortei o nei discorsi, nelle rivendicazioni né nella passività, ma in una scoperta che ha a che fare con il proprio desiderio. 

Fabrizio, studente, è entrato con solo altre tre persone in tutta la scuola, mentre i professori lo insultavano e gli scioperanti urlavano il suo nome al megafono. Qualche insegnante, stizzito perché non era sceso all’assemblea autoconvocata, gli ha chiuso a chiave la classe, ma lui, appena ha potuto, ha fermato il professore di navigazione e sono state due ore stupende: perché quell’insegnante ha tirato fuori la passione della sua vita. E Fabrizio ha scoperto la bellezza dello studio: «entrare mi rende più uomo», dice, «certo di quanto la scuola sia una sfida» e di «quanto tutte queste circostanze siano a mio favore».

Adriana è andata dalla sua ex insegnante di greco per invitarla a una cosa stranissima: 50 studenti, durante le feste dell’1 e 2 novembre, si trovavano insieme a studiare. Le ha chiesto di andare a studiare con lei. La sua prof stava scioperando contro l’aumento a 24 ore delle lezioni, era a favore del blocco delle attività extra. Ma l’1 novembre, in un giorno festivo, ha preso il treno a sue spese da Bari a Ostuni, ha perso mezza giornata ed è venuta a svolgere il suo lavoro extra. E perché mai? «Perché queste mie alunne sono speciali».

Alessandra è rimasta sconvolta da come i professori quasi li cacciavano dalle classi per mandarli all’assemblea autoconvocata. È scesa e ha visto molti di loro andarsene, altri tranquillamente seduti al bar: «non ci capivo niente, avrei voluto fare lezione, ma nessuno voleva. Sono tornata in classe e mi sono messa a studiare: non mi va di sprecare la vita così».

Vito una mattina si è ritrovato da solo. Non nella sua classe, ma in tutta la scuola: 1 presente su 900 ragazzi. Poi, ma in un’altra classe, si è aggiunto il suo amico Piervito, a forte rischio di interrogazione, ma che un minimo di cervello ce l’ha ancora, e arriva alla sottigliezza metafisica di constatare che «900 persone sedute a terra come le bestie o che si infradiciano sotto la pioggia battente pur di saltare comunque un giorno di scuola e magari occupare per non essere da meno di altri istituti» non sono proprio un modello di scuola desiderabile. 

E cosa succede a Vito, alla faccia dei numeri? Di scoprire l’umanità del suo insegnante di fisica, che «come un padre cerca di insegnare al figlio tante cose in poco tempo». E la fisica e la matematica inaspettatamente si svelano semplici, tanto che il giorno dopo è tornato a scuola con il sorriso sulle labbra e una voglia nuova di confrontarsi anche con la formula matematica più complicata. «Quei due giorni solitari mi hanno cambiato l’anno»: quanti scioperanti potrebbero dire lo stesso dopo i loro cortei? «Credo che gli stessi miei compagni di scuola se ne siano accorti», conclude, «perché in fin dei conti il desiderio più grande di noi ragazzi è essere felici a scuola».

Anna è entrata con poche compagne: ha scritto che «quest’aula è ancora un bel posto per me», e Mariapia sul quaderno di italiano ha raccontato che non ci si può sentire liberi solo perché si decide di non entrare: perché «nessuno è fino in fondo autonomo, e allora tanto vale scegliere di dipendere non da cosa decide la massa, ma da un valore assoluto». 

Antonella non ce la fa a credere ai suoi compagni che non studiano mai e improvvisamente «vogliono tutti salvare la scuola»: sente il desiderio di entrare e di non buttare una giornata, e non vuole che anche il suo diventi uno slogan. Ma proprio questi scioperi sono stata l’occasione per riscoprire all’ennesima potenza il suo desiderio: che tante volte non viene preso sul serio, perché magari in classe sono pochi e qualche insegnante ti fa pesare il fatto di essere entrato. Possono testimoniarlo Andrea, e anche Angela: li hanno sopportati. O Elisa e Anna, che ho visto aggirarsi alla disperata ricerca di un vocabolario di latino per poter almeno fare i compiti per il giorno dopo. 

E sì, neanche esserci basta, non basta neppure il coraggio di entrare a scuola mentre tutti manifestano. Non basta, ma questo desiderio di esserci, vissuto anziché dichiarato, è il punto di partenza più concreto e rivoluzionario che si è visto in giro. 

Ecco, gaberianamente «chiedo scusa se parlo di» Adriana, di Fabrizio, di Alessandra, di Anna, di Mariapia, di Antonella, di Piervito, di Andrea, di Vito: «certamente non è un tema appassionante in un mondo così pieno di tensione». Lo so, «ci son troppe cose che sembrano più importanti», ci sono questioni che riguardano la politica, ma a me è chiarissimo che quei ragazzi, che se ne fregano di entrare da soli, dei mormorii di compagni e insegnanti, che vanno dai loro professori a chiedere di capire meglio la matematica o l’inglese, indicano una realtà grandiosa e sconosciuta, mi spingono a un realismo più vero di ogni idea, mi svelano la vera novità che vorrei riscoprire prima di tutto io. Perché questi qui sono diversi dagli altri? Cosa mi chiedono le loro facce?

Ecco perché domani entrerò, fossi anche l’unico insegnante che non sciopera. Per realismo nei confronti di quelli che ho davanti ora (il presente conta più del futuro), quel realismo che ancora Gaber ci indica: «se sapessi parlare» di Adriana, di Fabrizio, di Antonella «avrei capito esattamente la realtà». 

Negli anni Settanta Gaber usò un nome soltanto, per sintetizzarli tutti: «Maria la libertà, Maria la rivoluzione, Maria il Vietnam la Cambogia, Maria la realtà».