Edith Stein nel 1932 scriveva: “I bambini, che nell’ora di religione ricevono un’immagine del mondo, e in quelle di tedesco, di storia o di scienze naturali ne ricevono un’altra, non possono approdare ad alcuna idea chiara, ad alcun convincimento stabile, divengono scettici ed insicuri, e alcuni per tutta la vita sentiranno che manca loro un terreno solido sotto i piedi”. Quello che la grande filosofa e pedagogista individuava come problema della scuola di Stato del suo tempo è esattamente lo stesso che si vive nella scuola di Stato di oggi. E non accade solo ai bambini, di sentirsi insicuri, ma anche ai già vaccinati ragazzi di 16-17 anni.
L’altro giorno in una prima liceo classico. Sto spiegando il Medioevo e la mentalità dell’uomo medievale. Sottolineo il fatto che per un uomo del Medioevo la verità esiste e vi si può arrivare, attraverso la ragione e la fede, che permette alla ragione di capire meglio. C’è insomma una certa stima nei confronti della ragione umana, pur conoscendone i limiti. Mi viene facile osservare che noi oggi, dopo aver “emancipato” la ragione dai vincoli del passato e del pensiero religioso, l’abbiamo ridotta a tal punto che nemmeno le permettiamo più di giungere alla verità. Le abbiamo tolto fiducia.
A questo punto li percepisco disorientati, in crisi, esattamente in quello stato d’animo di cui parlava Edith Stein. Il fatto è che avevano passato le due ore prima con la prof di filosofia, che aveva parlato del relativismo, evidentemente dando come certezza che la ragione non può avere certezze sulle questioni fondamentali della vita. I ragazzi avevano percepito degli accenti diversi nelle due spiegazioni e il risultato era il completo disorientamento. Ero davanti ad una prova evidente di quanto detto dalla Stein.
Per capire meglio di cosa si tratta, cito questo passo di Luigi Giussani dal suo Il rischio educativo: “L’insegnamento non si cura di offrire aiuto per l’effettiva presa di coscienza di una ipotesi esplicativa unitaria. La predominante analiticità dei programmi abbandona lo studente di fronte ad una eterogeneità di cose ed a una contraddittorietà di soluzioni che lo lasciano, nella misura della sua sensibilità, sconcertato e avvilito d’incertezza”, come se camminasse sulla sabbia, dove “buona parte dello sforzo compiuto è assorbito dall’instabilità del terreno”.
Manca dunque, a scuola, quell’ipotesi esplicativa unitaria che potrebbe aiutare il giovane a capire. Ma qui si dispiega la teoria che per la libertà del ragazzo occorra che egli si formuli da solo la propria unitaria concezione delle cose, quasi ricavandola per sintesi dall’incontro con tutte le teorie. L’esperienza però insegna che i giovani si sentono davvero “disorientati” e che questo metodo genera, normalmente, tre atteggiamenti: uno scetticismo corrosivo, superato solo affidandosi ai propri preconcetti, idiosincrasie o simpatie istintive; una forma di fanatismo bigotto, per cui si resta abbarbicati alle proprie convinzioni senza passarle a critica; un’indifferenza e un qualunquismo, per il quale si vive alla giornata senza farsi troppi problemi (l’atteggiamento più diffuso).
In tutti e tre i casi c’è una rinuncia ad aprirsi, a giudicare, ad interrogarsi, a mettersi davvero in gioco, alla ricerca della verità. Su questo terreno giunge come una schiacciasassi chi addomestica l’inquietudine del cuore del giovane, con la formuletta che tanto, in base al relativismo (dato come il termine positivo dell’evoluzione del pensiero umano), alla verità non si arriva mai.
Ma torniamo a quell’ora in prima liceo. Dovevo, come si dice, “metterci una pezza”, cogliendo l’occasione offertami da quella circostanza. E allora ho detto ai ragazzi che si può superare quel senso di disorientamento e uscire arricchiti anche da quell’esperienza, se solo si trova un criterio in base al quale giudicare quello che ci viene detto. E il criterio qual è? È quello delle esigenze costitutive che abbiamo dentro, a partire proprio dal bisogno di verità, vale a dire, cito Costantino Esposito, “che dentro ogni necessità o problema si evidenzia una domanda irriducibile di perfezione, di felicità, di bellezza, di bene e di giustizia”.
Il criterio è in questo speciale software con il quale siamo stati tutti programmati e che ci fa uguali a un uomo vissuto tre millenni fa o che vive a trecentomila chilometri di distanza. Il relativismo abolisce il problema della verità? È come dire ad un assetato (e con la pretesa di un dogma) che non esiste una fontana per placare la sete. Si può vivere in modo gaio a partire da questa prospettiva? È una posizione, questa, che corrisponde al mio essere uomo? Devo ritenere definitivamente chiuso e risolto il problema, senza degnare di una minima considerazione altre ipotesi? Bisogna imparare a farsi queste domande, per nulla scontate.
Penso che per i ragazzi sia stato utile questo momento. Per lo meno, stavolta non sono stati lasciati soli davanti allo smarrimento generato dall’incontro-scontro di due posizioni. È stato proposto loro un criterio di giudizio che li può coinvolgere direttamente. E, almeno lo spero, è stata salvata la fondamentale domanda di verità, che troppo spesso viene troncata e falciata con gelida e sommaria violenza.