Ascoltando certi slogan, ripetuti a piu voci lo scorso sabato 24 novembre, da gruppi di studenti e di docenti, mi è venuta spontanea l’adesione alla critica espressa da Mario Monti domenica sera da Fazio, sul rischio di strumentalizzazione degli studenti da parte dei gruppi più corporativi di docenti.
Ma, nello stesso tempo, il mio pensiero andava anche alla recente firma di Profumo con alcune sigle sindacali, con il riconoscimento dello scatto di anzianità, coperto però con un taglio, ancora indefinito, del Fondo di istituto, cioè di quel fondo che consente alle scuole un minimo di innovazione e di apertura progettuale. Quella firma è come il gatto che si morde la coda, come cantava Gaber, non sapendo “che la coda è sua”. Se Monti fosse davvero convinto di quello che ha detto in battuta, dovrebbe chiedere anzitutto conto a Profumo del suo operato, invece di incensarlo come “il più rappresentativo rettore italiano”. Troppe contraddizioni, troppo pressapochismo, troppa improvvisazione.
Allora la parola chiave che mi è venuta spontanea é “ipocrisia”, intesa come quella coltre nebbiosa che impedisce di comprendere come stanno effettivamente le cose, di capire cosa voglia dire nel concreto “servizio pubblico”, di condividere la forte preoccupazione che tutti dovremmo avere, sul futuro delle nuove generazioni, le più penalizzate dalle nostre iniquità.
Ma tant’è. Allora faccio un giro sui siti scolastici, sulle rassegne stampa, e lo scoramento non può non crescere. La domanda di verità sembra non interessare più di tanto. Tutto strumentale.
Prendo il coraggio a due mani, e mi imbatto, su Repubblica di ieri 28 novembre, sul solito Augias. Nel rispondere ad un lettore che criticava la “gaffe” di Monti, Augias parla di “gaffe più profonda e più grave”, quella di disconoscere il valore della scuola, “un’istituzione scassata che si regge ormai quasi solo sulle competenze di chi vi insegna”. Ma non si chiede perché si è arrivati a questo punto, al di là dei soliti rilievi sugli ultimi ministri. Critica sì, en passant, la Cgil, ma non va oltre. Non indica alternative. Il solito limite moralistico. Non si domanda il perché, si limita al che. Ad alcuni che, a pochi dati. Non fa cultura, potremmo dire, ma ripete i soliti cliché.
Allora prendo un altro giornale. E trovo a pagina 25 del Corriere, sempre di ieri 28 novembre, un pezzo dedicato ad una coraggiosa preside milanese, Maria Concetta Guerrera, del Liceo Leonardo da Vinci. Vorrei stringere la mano a questa collega milanese. Ha avuto il coraggio di pochi, difendere la propria scuola dall’ipocrisia. Riporto le sue parole: “Nessuno entrerà qui a fare danni, a devastare laboratori che sono preziosi e che poche scuole pubbliche hanno.
I ragazzi non hanno motivo di occupare. Hanno chiesto l’assemblea, l’ho autorizzata. Hanno chiesto spazi autogestiti, li ho autorizzati. Nessuna delle loro iniziative è stata negata o compressa. I professori sono tutti disponibili, sono persone dall’alto sentire. E la mia porta é sempre aperta, sono per il dialogo e il confronto. Loro invece…”; “Li ho chiamati fascisti, sì. E violenti. E squadristi. E figli di papà”.
Lo ripeto, vorrei stringere la mano a questa collega preside. Se dovessimo attendere una mano dal Miur, dagli Usr, dagli Ust sul viale del tramonto… Lasciati soli.
Quelle della collega milanese sono le stesse parole che avevo ripetuto martedì mattina 27 novembre agli studenti e, alla sera, ai genitori della mia scuola. Con la piena loro approvazione. Ma non succede così in tutte le scuole. Per quel velo di ipocrisia.
Sulla scuola ci vorrebbe una grande operazione di verità. A partire dalle analisi reali, dalla scuola reale. Rimettendo in gioco il significato di “servizio pubblico”. Sapendo bene che il cuore della scuola non è il preside, non sono i docenti, ma gli studenti, le loro domande di senso, di futuro possibile.
Coraggio della verità e dialogo aperto, senza muri di gomma, aperti a tutti, senza vincoli corporativi. Sapendo bene che l’interfaccia delle scuole è la comunità locale, non uno Stato lontano. Disponibili a forme di “rendicontazione sociale”. Il valore di un servizio, di una scuola come di presidi e docenti, oggi non può essere presupposto. Si conquista sul campo. Oltre i finti egualitarsimi. Ho una fitta cartella, sul mio tavolo, di richieste scritte da parte di genitori e studenti, per le carenze di alcuni docenti, carenze che i bravi insegnanti, poi, sono costretti a sanare. Senza differenze di stipendio, senza riconoscimento.
Dialogo poi aperto con le famiglie. Nella mia scuola, con duemila studenti, il 93 per cento del fabbisogno arriva dalle famiglie. Lo Stato dà le briciole, così la Provincia.
Per questi motivi, sarebbe importante la riforma degli organi collegiali. Tentativo sempre fallito negli ultimi 20 anni. È destinato a fallire anche questa volta, dopo l’uscita della Bastico, con l’opposizione del suo gruppo al Senato nei confronti del testo approvato alla Camera in forma bipartisan. Un passo avanti modesto, ma un passo in avanti.
Di ipocrisia si può anche morire. Per fortuna ci salvano alcuni presidi e docenti, per senso di responsabilità, oltre alle tante famiglie che comprendono il valore della scuola oltre le cortine di ferro mentali. Ecco la parola chiave: introdurre a tutto tondo, dal basso, l’etica delle reciproche responsabilità. Un’etica non so in che misura condivisa a livello politico, giornalistico, sindacale, quando parlano della scuola. Non c’è un’alternativa. A parte la solita cantilena alla Augias.