Habent sua sidera etiam adnotatores: sorte piuttosto grama quella dell’Anvur, voluta per innovare un sistema ritenuto sclerotico, per correggerne le storture maggiori, per imporre le virtù dell’altrove, ora è negletta dai suoi mentori e sottoposta a una critica radicale simbolicamente potente per la sua provenienza.
Non occorre più l’ardimento delle idee contrastanti con l’errore consolidato (le più difficili da affermare, poiché nell’Università, in questi tempi agitati, nulla è difeso con più veemenza dell’errore) per dire ciò che ciascuno vede, adesso: l’Anvur ha del tutto mancato la sua missione.
E il fallimento era scritto nel suo codice genetico. L’Anvur è stata infatti pensata come una “mirabile difformità”: se ne può trovare l’allegoria nei bestiari medievali, non certo il precedente in alcun sistema noto. Essa non è una vera agenzia in posizione di indipendenza, poiché la nomina dei suoi componenti e il suo assetto funzionale dipendono dal ministro. E non è soggetta a normazione eteronoma, ma forma essa stessa di volta in volta la regola del suo funzionamento e il parametro di ogni decisione.
Se ne è avuta prova con il ranking delle riviste. L’Anvur ha individuato la fascia “A”, cioè l’elenco delle riviste “eccellenti”, dapprima attraverso un “metodo” irrazionale nella concezione e arbitrario nell’applicazione: la “piramide”, realizzata stabilendo una proporzione fissa senza fondamento tra riviste di qualità presuntivamente diversa, su base “reputazionale”, cioè raccogliendo le “voci di dentro” il mondo delle pubblicazioni scientifiche, dando naturalmente credito maggiore e riscontro, tra le “voci”, a quelle udibili (anche perché talvolta efficacemente sussurrate, talaltra altrettanto efficacemente urlate) nei Gev (Gruppi di esperti della valutazione), che l’Anvur ha costituito al suo interno.
Nel caso specifico dell’area giuridica, l’Anvur, di fronte al contenzioso aperto dall’Associazione italiana dei costituzionalisti, ha dapprima rinunciato alla classificazione. Poi, dismessa la “piramide”, ha emanato una lista, unica, senza più distinzioni di tipo scientifico-disciplinare, in cui ha compreso non solo riviste italiane, ma anche riviste straniere.
In perfetta coerenza col “sistema Anvur”, i criteri non sono noti e gli effetti, apparentemente casuali, obbediscono forse a una logica inconoscibile, come inconoscibili sono i valutatori cui è stata affidata questa nuova impresa. Risultati: sono qualificate come eccellenti, non solo riviste effettivamente reputate tali dalla comunità scientifica (non molte), ma anche rivistine militanti (di diverso orientamento ideologico”, per vero), bollettini di pratici, rassegne documentali, non-riviste (cioè pubblicazioni che si autoqualificano come “serie” di volumi collettanei), riviste non più attive da anni. E sono state escluse riviste di grande pregio, quelle maggiormente innovative per opzioni tematiche e metodologiche, e conformi a tutti gli standard internazionali che presiedono a sistemi credibili di valutazione.
In ragione di questa classificazione, l’Anvur ha prodotto il “terzo indicatore” della famigerata “mediana”. Singolare determinazione: il Tar Lazio ha già fissato a breve la discussione nel merito del ricorso della società scientifica dei costituzionalisti; e non ha, a suo tempo, concesso la sospensiva della delibera Anvur, perché questa ha esibito in giudizio una lettera del ministro con la quale si disponeva di “soprassedere” al ranking per l’Area 12. Ora, prima che il Tar si pronunci, si cessa di “soprassedere”: una performance da illusionisti, che avrebbe potuto trovare a buon diritto posto nell’aneddotica ambientata da Piero Calamandrei in un certo demi-monde giudiziario.
Ma torniamo alla “mediana”. Si tratta di un criterio di pura produzione ministeriale e di pedissequa e peggiorativa applicazione Anvur. Esso non trova infatti alcun fondamento nella legge.
Ma, soprattutto, parte dall’«idea coatta» (resistente a ogni ragionevole considerazione della realtà, per quanto pazientemente prospettata) che sia possibile distinguere tra docenti “di pregio” e docenti “di minor pregio”, secondo la linea di demarcazione tra un quadrante superiore e un quadrante inferiore di identica dimensione, linea definita, per le aree umanistiche, con riferimento esclusivo al numero delle pubblicazioni. Gli esiti sono paradossali: supera, per esempio, la prima mediana chi, nel decennio, ha scritto piccoli pamphlet di qualità mediocre, e non chi ha scritto un solo poderoso trattato su un tema di fondo.
Ora, non è dato prevedere verso quale destino le stelle avverse trascineranno l’Anvur. Ma i guasti sono già stati prodotti. E sarà lungo e difficile porvi rimedio. La distorsione più evidente è derivata dal cortocircuito tra valutazione Anvur e concorsi. Sia il reclutamento dei commissari sia la valutazione dei candidati a conseguire le idoneità è stata definita – esclusivamente per i primi, prevalentemente per i secondi – in ragione del superamento della mediana, cioè su base quantitativa e numerologica.
Ne è derivato un immediato riflesso conformativo nei candidati. È stata messa in opera un’interessante gamma di espedienti, intesi a rendere la propria produzione compatibile con i parametri Anvur: aggregazione di articoli di rivista in volume o, viceversa, disaggregazione di un volume in articoli di rivista (federalismo editoriale); trasformazione di capitoli di opere monografiche in monografie autonome, grazie a qualche lievitazione espositiva e soprattutto all’opera sapiente del tipografo (editoria per gemmazione); “brevi monografie” allestite in tempi impossibili, presentate al solo fine di “superare la mediana”, ma non comprese nell’elenco dei lavori da sottoporre alla valutazione dei commissari (tecnica del doppio binario); manuali che hanno cambiato editore per essere presentati come monografie “nuove” (editoria del mercato concorrenziale); commenti a sentenze risalenti a molti anni addietro (editoria per riesumazione); assalto alle riviste telematiche per pubblicare piccoli lavori (alcune riviste hanno resistito e conservato in atto i referee; altre no, approvando la pubblicazione ad horas).
Lavori che ovviamente non hanno avuto alcuna circolazione nella comunità scientifica. Tutto ben prevedibile, e previsto, se si considera l’inusitata lunghezza del termine che i bandi hanno assegnato ai candidati all’abilitazione per presentare domanda, con facoltà di allegare gli scritti prodotti fino alla data di scadenza. Sia chiaro: tra coloro che hanno messo in opera certe pratiche molti sono studiosi validi, che, in tempi di normalità, avrebbero ottenuto l’abilitazione. Ma ora disperano, a ragion veduta, di poter ottenere una valutazione qualitativa e di merito, e temono di essere superati dai meno operosi ma più disinvolti.
E non è certo questa l’unica perversione che il sistema subisce per mano di chi ambiva moralizzarlo. Infatti, non v’è solo il cortocircuito valutazione-concorsi, ma anche quello valutazione-concorsi-riforma dell’università. Il quale si produce per la previsione della “lista aperta” degli idonei. In realtà quello in atto non è neppure, a rigore, un vero concorso, se per concorso deve più propriamente intendersi la competizione tra candidati a coprire un numero prestabilito di posti.
Si tratta di valutazioni idoneative: chi viene ritenuto dotato dei titoli adeguati potrà essere poi ammesso a partecipare a concorsi in sede locale. Dunque, se si guarda oltre la propaganda del “concorso nazionale”, si comprende che i concorsi saranno in realtà “iperlocali”: in ciascun ateneo saranno costituite commissioni, per singoli dipartimenti, in ciascun settore.
Chi, tra gli idonei, passerà questa fase ulteriore? Una plausibile risposta a questa domanda non può non tenere conto della sorte che ha subito l’organizzazione dell’università in sede di attuazione della legge 30 dicembre 2010, n. 240: la torsione nel verso dell’unidimensionalità e dell’accentramento del sistema di governo intorno alla figura del rettore e del consiglio di amministrazione, specie quanto all’impiego delle risorse; la soppressione delle facoltà e l’imposizione di un modello organizzativo unico che conserva e aggrava le antiche disfunzioni (talvolta, poi, in singoli atenei sono state compiute scelte che, con l’obiettivo impossibile di far sì che “nulla cambi”, hanno inferto ulteriori colpi all’efficienza del sistema). In siffatta “Università Riformata”, sono stati approvati regolamenti sui concorsi assai “blandi”, tali da renderli perfettamente “domestici”.
Tra i tanti eletti (gli idonei) quanti e quali saranno allora i chiamati (i vincitori locali)? Il rovesciamento del Vangelo di Matteo non sembri casuale: l’effetto è davvero “diabolico”, poiché saranno chiamati coloro (pochi) per i quali il rettore e il suo cda avranno apprestato un budget, concedendolo al singolo dipartimento in vista della copertura di uno specifico insegnamento. I chiamati saranno dunque i “conformi” al contesto politico locale. O coloro che passeranno attraverso il canale del familismo, del clientelismo, o altro: ciò che è sempre avvenuto, ma in casi limitati; eclatanti, odiosi, allarmanti, ma limitati. Oggi questa sarà la regola con pochissime eccezioni.
I “chiamati” in siffatte forme e con siffatto fondamento saranno anche i migliori sotto il profilo scientifico? È lecito dubitarne. Né potrà far da argine la selezione preliminare nazionale in sede di accertamento dell’idoneità. Essa, infatti, per come si è venuta conformando (calcolo preliminare del superamento della “mediana”, che però – afferma l’Anvur, e con l’Anvur il ministro – è “derogabile”; bassa qualità “imposta” della produzione scientifica; arbitraria valutazione di eccellenza delle sedi di pubblicazione) sembra la più acconcia a provocare la massima apertura al riconoscimento del titolo. Il lavoro delle commissioni, infatti, si svolgerà sotto l’incombenza dei ricorsi giurisdizionali, tanto più gravosa in ragione delle determinazioni disinvolte che hanno segnato ogni fase dei procedimenti sia di valutazione sia di concorso.
Per l’area giuridica, si aggiunga il numero elevatissimo di domande presentate da “esterni”, pubblici funzionari e soprattutto magistrati di ogni giurisdizione e di ogni grado: un ulteriore formidabile “carico” per le commissioni. E il carico è, in generale, davvero quasi insostenibile: sono stati contati 46mila candidati, di cui 20mila esterni ai ruoli dell’università.
In simili condizioni la via più facile sarà quella di tendere a riconoscere l’abilitazione a tutti, salvo casi estremi di “impresentabilità” sostanziale, in modo da “prevenire il contenzioso”. Poi la partita si giocherà nelle sedi locali. Appunto.
L’Anvur era partita con grandi obiettivi. Quello maggiore era dare vita a una “nuova Università”, moralizzata e messa all’altezza degli standard internazionali. E, nel suo accidentato percorso, aveva ritenuto di poter risolvere alcuni problemi eterni, come quello, epistemologico, di stabilire cosa sia “scientifico” e cosa non lo sia. O alcune questioni apparentemente meno impervie, come stabilire “quanto valga” un articolo scientifico e quale pregio vada riconosciuto a una rivista. Per farlo ha applicato non il metodo scientifico, ma un ingenuo scientismo fatto di numerologie bizzarre e algoritmi autoreferenziali, che, nelle retoriche che ci tocca subire, hanno preso luogo del “latinorum” manzoniano.
C’è stato chi – nelle università, nelle società scientifiche, in sede politica (assai più raramente) – ha segnalato le regole sostanziali ineludibili della valutazione: la condivisione preliminare, da parte delle comunità scientifiche, dei criteri da far valere (pro futuro, non retroattivamente, affinché gli studiosi possano farvi adeguato assegnamento nell’impostare i propri studi e la propria produzione); il riconoscimento dei valutatori nel loro ruolo da parte delle medesime comunità, sulla base dell’autorevolezza scientifica e non attraverso opache cooptazioni; il carattere qualitativo di tutti i giudizi, in ragione del valore intrinseco dei singoli lavori: la quantità sia considerata solo al fine di poter ritenere congrua la base di riferimento per la valutazione qualitativa; il metodo del giudizio dei pari.
Coloro che hanno compiuto questi richiami sono stati spesso additati come gli irriducibili guardiani della conservazione, come gli oscuratori dell’alba radiosa del mondo nuovo che si schiudeva innanzi all’eccellenza universitaria, come i profeti del legalismo inconcludente opposto al sano sostanzialismo degli innovatori.
Ora i fatti – i fatti con la loro irriducibile durezza – sono sotto gli occhi di tutti. I fatti e i guasti. Speriamo sia possibile porre rimedio per tempo.