Un bellissimo film di e con Denzel Washington di qualche anno fa, inspiegabilmente (ma non troppo) non arrivato nelle sale italiane, ma rinvenibile da qualche mese in dvd, The Great Debaters, racconta la storia vera di una “squadra di dibattito” di un’università nera (nel senso di composta da studenti e docenti afroamericani) che sfidò le più blasonate università bianche fino a conquistare il titolo nazionale. Il film è ambientato nel 1935, e la vicenda narrata segna l’antefatto della nascita del movimento di liberazione antirazzista che culminerà con le manifestazioni degli anni 60, e con la figura celeberrima di Martin Luther King. 



Mi veniva in mente questo film mentre leggevo l’articolo che su queste pagine Giovanni Fighera ha dedicato alla proposta di tornare a insegnare la retorica nelle scuole. In The Great Debaters la battaglia è proprio per affinare l’arte dell’argomentazione, dell’ottenere ragione in un dibattito pubblico e – come il film mostra molto bene – si tratta di studiare molto, non solo le tecniche, ma anche l’oggetto su cui si andrà a dibattere, non solo per vincere una competizione, ma – più a lungo termine – per imparare ad affermare e difendere le proprie buone ragioni nello spazio pubblico. Mi veniva in mente il film perché è una rappresentazione assai efficace, come sa fare il buon cinema americano, di come questa disciplina fosse e sia coltivata nel mondo anglosassone, mentre noi, riducendo la retorica all’“ornato”, alle figure, l’abbiamo poi presto svalutata e messa nel dimenticatoio, anche per l’eredità crociana che vuole vedere solo “arte pura” dove invece c’è anche tecnica, struttura, organizzazione testuale, appartenenza ad un genere.



E in effetti la retorica, vero culmine di tutta la tradizione educativa occidentale fino al XIX secolo, copriva un tempo il ruolo di studio delle strutture testuali che oggi è sfaldato e disperso in ambito accademico in molte specializzazioni: è supplito in parte dalla semiotica, in parte dalla narratologia, in parte da studi, che via via si vanno sviluppando e specializzando, di teoria dell’argomentazione (più filosofica), di teoria della persuasione e di teoria della negoziazione (considerate spesso più psicologiche), in parte da altre forme di teoria letteraria. Si sono occupati di qualcosa che ha molto a che fare con la retorica studiosi contemporanei tanto diversi come Chaim Perelman, Wayne Booth, Umberto Eco, Gerard Genette, Clive S. Lewis (la sua teoria della “trasposizione”), Walter J.Ong, Paul Ricoeur, o gli studiosi della metafora e del framing, che poi sono anche strateghi delle campagne elettorali americane, come George Lakoff e Frank Luntz. 



Un ambito così frammentato non è facile che trovi immediatamente una sintesi per essere insegnato nelle scuole superiori: mi è capitato di vedere testi di teoria letteraria che cercano di dare qualche elemento sull’organizzazione logico-retorica di un testo, sulla struttura dei generi, ecc. ma non molto di più.

Ma forse, più semplicemente, si potrebbe tornare a insegnare e a proporre elementi chiave della retorica aristotelica, che oggi sono dispersi in molte discipline, sotto un ombrello più pragmatico che è quello dell’“arte della comunicazione”, quella che gli americani studiano in modo super-pratico come public speaking (saper parlare, nel senso anche ovviamente di argomentare) in pubblico, o anche come speech writing, l’arte di comporre discorsi che convincono. Se leggiamo i discorsi dei candidati alla presidenza degli Stati Uniti, ma anche i discorsi (sempre molto brevi, ma intensi e perfetti), che vengono prestati ai personaggi dei film nei momenti clou, possiamo avere un’idea di come e quanto questa arte sia finemente ed efficacemente coltivata.

Se c’è una disciplina che possa formare la mente e il senso critico, e anche, di conseguenza, essere davvero utile nella vita professionale, è proprio questa arte della comunicazione. Senso critico, per esempio, per decostruire le argomentazioni sofistiche di molte storie proposte dal cinema e dalla televisione: quando si parla di media education, per esempio, sono molto perplesso tutte le volte che sento porre l’accento sull’uso di tecnologie o macchinari… La vera media education, cioè educazione alla fruizione dei media (giornali, cinema, televisione…) prima ancora che alla loro elaborazione, dovrebbe essere una formazione culturale che insegna a scoprire le argomentazioni che vengono proposte in ogni storia e a valutarne la verità o la falsità. Come si vede, un compito non facile, che non si esaurisce in poco tempo, e che avrebbe una grandissima valenza nella scuola di oggi. 

Accanto a questo, ovviamente, lo studio dell’arte di argomentare, di convincere, di sostenere un punto di vista, di illuminare e proporre una verità perché venga riconosciuta e accettata. È un’arte di cui ogni persona umana ha bisogno tanto nella sua vita personale quanto in quella professionale. Pensiamo a come ne ha fatto uso Steve Jobs nei suoi famosi keynote speeches. Ma pensiamo anche a quanto ne ha bisogno un insegnante, un leader di gruppi piccoli o grandi, un manager, un padre o una madre nei confronti dei figli, e così via. 

La tradizione inglese, soprattutto per la formazione delle élites, se ha forse meno tecnicizzato alcune pratiche (mentre gli americani tendono sempre a voler produrre regole e prontuari: how to…) ha però sempre valorizzato moltissimo tutta la cultura letteraria e in senso lato retorica, base necessaria per apprendere quell’arte del ragionare e dell’argomentare che serve poi anche quando si fa politica, o si lavora nella finanza o nel cinema o nella pubblicità, tutti campi dove i britannici eccellono ancora oggi.

 

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