Il 31 ottobre è uscito su Repubblica un articolo di Marco Lodoli, docente, giornalista e scrittore, dal titolo “La fine dell’umanesimo. Quell’altrove culturale dove vivono gli studenti”. Nell’articolo, tra l’altro, si legge: “(…) Quante volte negli ultimi anni ho raccolto dai miei colleghi sfoghi di questo genere: professori di lettere, storia, filosofia, arte che si sono ben preparati per la loro lezione e che finiscono a parlare nel vuoto, come radioline lasciate accese in un angolo, e a poco a poco si scaricano, si spengono malinconicamente. Perché accade questo, perché sembrano saltati i ponti e le rive si allontanano sempre di più? A riguardo mi sono fatto un’idea. Finita, esaurita, muta, forse non proprio morta e sepolta, ma di sicuro messa in cantina tra le cose che non servono più: la cultura umanista sembra aver concluso il suo ciclo, ai ragazzi non arriva più niente di tutto quel mondo che ha ospitato e educato generazioni e generazioni, che ha prodotto una visione del mondo complessa eppure sempre animata dalla speranza di poter spiegare tutto nel modo più chiaro, adeguato alla mente dell’uomo, alle sue domande, ai suoi timori”.
La risposta di Giulia Guidi, 5° anno liceo classico.
“L’occhio guarda, per questo è fondamentale. È l’unico che può accorgersi della bellezza; (…) la bellezza può passare per le più strane vie, anche quelle non codificate dal senso comune. Dunque la bellezza si vede perché è viva e quindi reale. Diciamo meglio che può capitare di vederla. Dipende da dove si svela. Ma che certe volte si sveli non c’è dubbio (…) Il problema è avere occhi e non saper vedere, non guardare le cose che accadono, nemmeno l’ordito minimo della realtà. Occhi chiusi. Occhi che non vedono più. Che non sono più curiosi. Che non si aspettano che accada più niente. Forse perché non credono che la bellezza esista. Ma sul deserto delle nostre strade Lei passa, rompendo il finito limite e riempendo i nostri occhi di infinito desiderio”.
Pier Paolo Pasolini descrive così il rapporto tra uomo e bellezza introducendo inevitabilmente il tema della libertà; eppure sul deserto delle nostre strade Lei passa, ci dice Pasolini, e di questo dobbiamo esserne certi. Credo che una scuola, qualsiasi essa sia, debba proporsi, mostrarsi ai suoi studenti, cioè a noi, con questa pretesa. Per niente di meno non varrebbe la pena studiare. Che il mondo stia cambiando, è vero, ma dire che gli uomini sono diversi, questa è una menzogna. Oggigiorno in una classe di liceo almeno la metà degli studenti non si stimano, non si riconoscono più e mettono così in atto svariate armi difensive, dal rifiuto della realtà all’accanimento verso di essa; gli uomini non si riconoscono più con il passato anzitutto perché non si riconoscono più con loro stessi.
Se intercorre una frattura, un disinteresse tra contemporaneità e tradizione è perché l’uomo moderno non è più abituato a tenere alta la fiamma del desiderio, nell’attesa di trovare un qualsiasi compagno di strada, un amico, un poeta, che non lo faccia più sentire solo nel suo cammino. L’uomo moderno si nutre del finito e così lo studente si nutre di piccoli obbiettivi, di piccoli voti, di piccole soddisfazioni. Talvolta la bellezza è ancora più insostenibile del male, è insopportabile nella sua inafferrabilità, è rischiosa. Se la bellezza porta con sé una fatica, un rischio, perché dovremmo essere disposti ad abbandonarci ad essa? Come può, un giovane, riappacificarsi con la bellezza dopo esserne rimasto deluso? Come può se non trova maestri all’altezza del suo desiderio?
Io mi chiederei innanzitutto con quale prospettiva un professore decida di entrare in aula. A noi non interessa quanto l’insegnante abbia preparato bene la lezione, quanto l’insegnante sia colto ed erudito. A noi studenti interessa incontrare persone certe che valga la pena vivere, persone disposte ad amare la nostra fatica, il nostro rifiuto, persone disposte a educarlo, a correggerlo. Nessuno oserebbe dirci che studiare è sconveniente, ma qualcuno ha mai avuto il coraggio di darcene le ragioni? E soprattutto di mostrarcele?
Jean-Louis Chrétien ha detto che soltanto ciò che ci lascia senza parole è meritevole di essere espresso. Esistono ancora professori convinti della dignità di ciò che insegnano? Chi è quel professore che ha negli occhi e nella voce i suoi filosofi, la sua materia? Trovare uomini così significherebbe trovare in chi riporre fiducia, significherebbe poter essere disposti a usare autenticamente la propria libertà, essere disposti alla fatica.
La bellezza è faticosa, la bellezza del passato è faticosa, l’intensità delle questioni può essere pesante se nessuno ci assicura che vale la pena affrontarle. L’uomo per sua natura è attirato dalla conoscenza. Ma se è vero, come ha affermato Dante nella Divina Commedia, che studiare significa amare, allora il far fatica a studiare porta dentro di sé una fatica nell’amare. La scuola, attraverso la tradizione, attraverso la letteratura dovrebbe essere il luogo dell’amore, quel luogo dove noi possiamo allenarci ad amare.
Giulia Guidi – Liceo classico Don Carlo Gnocchi, Carate Brianza