Confermati con l’inizio dell’anno scolastico 2012-13 i dati che già diversi mesi fa avevano suscitato un certo scalpore. Il fatto cioè che un maggioranza stimata nel 52% degli studenti italiani ha preferito iscriversi agli istituti tecnici invece che ai licei, un dato che riporta indietro agli anni 60 e 70 quando questo numero era invece la normalità. “Questa crisi economica” dice a Ilsussidiario.net Dario Nicoli “è stata provvidenziale da questo punto di vista. Ha rimesso al centro della scelta delle famiglie, dei ragazzi e in parte anche delle scuole il tema del lavoro. Non più il lavoro strumentale teso a reperire un reddito per poi realizzarsi nel tempo libero, ma il lavoro inteso come espressione di sé e servizio al bene comune”. Per Nicoli “si era creato un distacco e un indebolimento del contenuto del lavoro e della proposta della cultura dell’etica del lavoro da parte delle scuole”. Conseguenza di ciò, aggiunge, “il disancoramento dal contesto sociale ed economico, come se i ragazzi potessero sostanzialmente vivere sempre alle spalle delle famiglie”.



Professore, si conferma l’inversione di tendenza che vede gli istituti tecnici superare i licei. Una tendenza secondo lei positiva?

E’ un fatto positivo in generale anche se bisognerebbe vedere bene le statistiche sul territorio e sui singoli tipi di istituto. In generale era un decennio e mezzo che procedeva il processo di liceizzazione: tutti gli esperti lo avevano considerato critico, un segno di disancoramento della scelta dei ragazzi e delle famiglie dalle effettive necessità e responsabilità di lavoro reali.



Ma gli istituti tecnici oggi, nel 2012, offrono realmente possibilità di inserimento nel mondo del lavoro?

Chiariamo intanto che l’istituito tecnico è un po’ diverso da quello professionale. Quest’ultimo prevede che al 70, 80% i ragazzi alla fine del percorso di studi si possano inserire nel mondo del lavoro. Gli studenti del tecnico invece al 50, forse 60% proseguono gli studi con l’università, però scegliendo un indirizzo di studi e di facoltà di tipo ingegneristico, scientifico o tecnologico. Che poi sono le stesse facoltà su cui si appoggia una possibilità di ripresa economica del paese.



Il ministro Profumo sostiene che in Italia bisognerebbe anticipare l’orientamento dei ragazzi verso il corso di studi.

Sono d’accordo se noi consideriamo l’orientamento nel suo significato più esatto.

Cioè?

L’orientamento non deve essere fatto in senso informativo ma in chiave formativa. I ragazzini delle medie già in seconda possono fare degli stage presso istituti appositi per capire qual è il tipo di formazione e di cultura che viene proposta. Successivamente è il percorso degli studi che deve portare i ragazzi, attraverso uno stretto contatto con le realtà che appartengono al mondo esterno, a orientarsi sempre di più attraverso una scelta consapevole e fondata.

Un orientamento concreto dunque, ma come?

Non si tratta solo di formazione né solo di componenti di tipo psicologico. Un’area come quella tecnica deve orientare attraverso laboratori, prodotti reali, collaborazioni con aziende ed enti, anche di ricerca.

 

Ma le aziende oggi collaborano realmente con le scuole?

 

Sì. Di solito è l’alternanza scuola-lavoro la strategia che viene usata per ancorare maggiormente l’istituto tecnico al contesto economico e sociale istituzionale. Inoltre è il comitato tecnico scientifico, cioè le nuove strutture di indirizzo dell’istituto, a favorire questi rapporti. Il sistema degli studi tecnici insomma è molto ben legato con il contesto economico. Sono venute meno quelle sconnessioni che si manifestavano negli anni 90. Molti istituti lavorano in questa direzione, e tendono a creare delle vere e proprie comunità professionali che consistono in intese forti tra sistema economico e sistema informativo garantito anche dagli enti locali.

 

La crisi ha influito sul quadro generale?

 

La crisi ha ovviamente influito, perché non si può mandare un ragazzino a fare uno stage là dove c’è, ad esempio, una cassa integrazione. Ci sono difficoltà obiettive, è vero, ma si può sperare che adesso, con i segnali positivi che cominciano a manifestarsi, il rapporto con le aziende torni a essere positivo.

 

E’ stata la crisi a portare un maggior numero di ragazzi verso le scuole tecniche?

 

Questa crisi è stata provvidenziale da questo punto di vista. Ha rimesso al centro della scelta delle famiglie, dei ragazzi e in parte anche delle scuole il tema del lavoro. Non più il lavoro strumentale teso a reperire un reddito per poi realizzarsi nel tempo libero, ma facendo sì che il lavoro sia inteso come espressione di sé e servizio al bene comune. Nelle scuole si era creato un distacco tra cultura ed etica del lavoro.

 

E questo cosa comportava?

 

In una società comoda, mediamente benestante, uno dei segnali più negativi che appaiono nella scelta dei ragazzi è che le scelte sono disancorate dal contesto sociale ed economico, come se i giovani potessero sostanzialmente vivere alle spalle delle famiglie. La crisi ha scosso questa situazione e ha fatto emergere l’importanza di scelte consapevoli orientate a un inserimento lavorativo, all’assunzione di ruoli sociali veri. Non a rimandare continuamente, in un percorso estenuante fino alla fine dell’università, il rapporto con il mondo reale.