L’inno di Mameli insegnato a scuola; ogni 17 marzo, “Giornata dell’Unità, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera”. Fin qui, la notizia. La riflessione, da ogni parte la si prenda, oscilla continuamente tra estremi opposti. La prima cosa che ti viene in mente è l’opportunità che le Camere, in questo periodo, si dedichino a simili argomenti: da un lato, verrebbe da dire “ma non hanno proprio nient’altro di cui occuparsi?”; e tuttavia forse proprio questo sembra un segnale positivo, di sana normalità: nonostante tiri aria di Otto Settembre, i legislatori continuano a mantenere una calma e una visione di lungo respiro, se pensano a come far conoscere i simboli della nazione alle generazioni future. Comprese quelle di carnagione color senape o caffè, diverse dalle pur numerose sfumature che popolavano la penisola a metà 800.



Subito dopo, possiamo metterci la sensazione viscerale? Sarà anche vero che dà abbastanza sui nervi vedere la scuola obbligata ad occuparsi di questioni istituzionali, irrigidendole e imbalsamandole in un ritualismo che sarebbe troppo nobile definire retorico; a cui si aggiunge un rischio, già visto per tante altre celebrazioni in cui credi e che ti commuovono, incluso più recentemente il Giorno della Memoria: cioè che gli studenti, annoiati dal rituale, finiscano poi per rifiutarle tra scherno e sbadigli. In questo senso, le dichiarazioni a caldo dell’Anp, Rembado, paiono ben fondate. Ma poi, sotto sotto, pensi che la cosa va nei denti a quelle forze, dentro o fuori il Parlamento, che del disprezzo dello Stato unitario e dei valori della nazione hanno fatto in vario modo la loro bandiera. Pensi che per decenni si sono alternati a darti del cialtrone retrogrado perché invece ci credevi; lo pensi soltanto, per carità, certe cose non si dicono e tanto meno si accompagnano con atavici gesti del braccio: e ma però…



Forse solo a questo punto ti viene da pensare al merito dei provvedimenti. 17 marzo, proclamazione del Regno d’Italia. Una scelta particolarmente felice perché apparentemente imprevedibile, compiuta lo scorso anno per il 150°. Che ti fa ancora di più apprezzare che la Repubblica sia guidata da un uomo come Giorgio Napolitano, che ha una storia così complessa e diversa eppure sa bene dove affondano le radici di questa Italia unita. Unità, Costituzione, Inno e Bandiera tutte insieme (e, che Buzzati mi perdoni, stavolta tutte con la maiuscola). Ti pare di essere in uno di quei grandi Paesi che hanno la serietà e l’orgoglio della propria identità, comunque siano andate le cose del passato. Quell’invidia che ti prende quando senti lo sconfitto alle elezioni americane che proclama rispetto e fedeltà per chi, anche se gli sta sull’anima, è capo e simbolo di una grande nazione. Non contrasta con il tuo sentirti prima di tutto europeo, perché l’Europa è proprio somma ed eredità del frullato della storia e dell’identità delle sue nazioni. 



Solo alla fine pensi proprio al povero vecchio Inno degli Italiani, del poco conosciuto Mameli e dell’ignoto Novaro. Noi nati tra la fine dei 50 e l’inizio dei 60 siamo gli ultimi che, a scuola, ci siamo sentiti raccontare quei valori là, a volte anche con quella retorica che poi, per tanti di noi, è stata fra le molle per il loro successivo ripudio. Un inno che già allora non ti facevano leggere per intero, se non altro perché quella compilation di eroi patrii, dal teppistello Balilla in giù, suonava troppo nostalgia del passato regime. Un testo fiacco, una musichetta dappoco; la neonata Repubblica aveva pensato di usare in alternativa la Canzone del Piave, che aveva lo svantaggio di essere fin troppo legata a ricordi più freschi e sanguinanti rispetto a Gavinana e ai Vespri. Così, in mancanza d’altro, si era ripescata la vecchia marcetta, che era stata trascurata dal fascismo, definendola “inno provvisorio”: pane per i denti degli spiriti liberi ed anticonformisti dell’epoca, da Guareschi a Mosca a Jacovitti, di fronte alla provvisorietà della nuova, stremata patria. Ai tempi del gloriosoGiornale di Montanelli mi pare fosse stato un altro spirito del genere, Giorgio Soavi, a proporre in alternativa il Va Pensiero, cui per supremo oltraggio pochi anni dopo capitò la sorte che sappiamo.

Eppure. Eppure pensi che l’hai cantato tante volte e spesso per qualcosa di più importante di una partita. Che domenica scorsa, vicino a te in cappello alpino, davanti al Monumento ai Caduti del tuo borgo lo cantavano a squarciagola proprio i ragazzi di una scuola superiore, in onore del 4 Novembre. E in fondo gli vuoi bene, alla povera marcetta che ha però accompagnato lutti ed onori di tre generazioni repubblicane, guadagnandosi sul campo il merito ed il rispetto che già Ciampi rivendicava. Sta adesso a trovare il modo per parlarne ai ragazzi; un esempio l’aveva dato un Benigni raramente ispirato, sull’improbabile palco di Sanremo: sussurrata e tremante, con la voce di un ragazzo che davvero vuol credere di esser pronto alla morte. Oppure, far notare che quei versi saltellanti a rime alternate e quella musica poco marziale erano, ai tempi dei ragazzi della Repubblica Romana, forme giovanili e provocatorie in opposizione a testi e musiche dell’ufficialità, e che hanno più di una somiglianza con un rap di oggi. Sì, niente da spartire col più bel rap della storia dell’umanità, il Coro dell’Atto Terzo dell’Adelchi, ma comunque un discreto sforzo. Il problema è: la scuola italiana saprà spiegarle e farle amare, queste storie di antichi ragazzi ribelli?