Diceva John Henry Newman, riferendosi a uno dei suoi maestri, R. Whately, incontrato ad Oxford: “Mi aprì, con decisione, la mente, mi insegnò a pensare e a usare la mia ragione” (dall’Apologia pro Vita Sua). Chi può dire questo dei suoi insegnanti? La domanda rilancia la sfida, interessante e attualissima, proposta su queste pagine: la scuola educa davvero a pensare e a ragionare?



Condivido l’appello a reintrodurre uno spazio per l’insegnamento teorico e pratico della retorica e una maggiore attenzione per questa disciplina, che sembra essere oggi trascurata in ambito scolastico. In proposito, proporrei qualche spunto di riflessione.

Primo. La retorica serve. Oggi. Il significato di “retorica” e “oratore” che torna in mente dagli studi del liceo è nel migliore dei casi un esercizio di abbellimento del discorso (quante ore passate ad elencare le cosiddette figure retoriche, vivisezionando testi, da Dante a Manzoni, che avrebbero avuto molto di più da dirci!); nel peggiore dei casi, l’arte sofistica di far passare qualunque tesi a qualunque costo. La forza positiva della retorica, la possibilità di convincere, di far vedere all’altro un valore, resta spesso in ombra nella scuola; qualcuno, al limite, la collega con il passato, con le assemblee nell’Atene del V secolo. Eppure, noi abbiamo bisogno della retorica oggi; e la usiamo ogni volta che l’interazione con altre persone ci spinge a prendere una posizione e ad argomentarla, nello sforzo di dare le ragioni e di vagliare criticamente le posizioni e le obiezioni altrui. Questo aspetto è considerato oggi nell’attenzione che si dedica, sia a livello scientifico che in alcuni insegnamenti universitari (e, più raramente, scolastici), all’argomentazione, intesa come dialogo ragionevole, dove il tentativo di persuadere va di pari passo con il sottomettere ciascun giudizio al vaglio critico della ragione. Lo studio dell’argomentazione, che può essere considerata una ripresa e un approfondimento della retorica intesa in senso classico, vive oggi un momento di fioritura a livello internazionale.



Secondo. Convincere non è (necessariamente) manipolare. L’atteggiamento argomentativo si fonda sul principio aristotelico, profondamente ottimistico, secondo il quale, per l’uomo, “la verità e la giustizia sono per natura più forti dei loro contrari” (dal primo libro della Retorica).

Chi crede in un’impresa, chi ha un desiderio che vuole realizzare, è portato a prendere una posizione e ad argomentare per sostenerla. Questo accade certamente in diversi ambiti pragmatici della vita umana (prese di decisione a livello personale, familiare, giuridico, politico…) così come in ambito conoscitivo, nel formulare e sostenere ipotesi per comprendere la realtà. 



Chi sceglie l’argomentazione, sceglie una strada idealmente ragionevole, escludendo i tentativi di persuasione “a qualunque costo”, la violenza e l’inganno e accetta di sottoporre la propria tesi al vaglio della ragione dell’altro. È importante ricordare, d’altronde, che insegnare retorica intesa in senso argomentativo significa anche dotarsi di una serie di strumenti per scoprire le manipolazioni e difendersi dagli imbrogli. Non a caso, da sempre, nei manuali di retorica e argomentazione è incluso un capitolo sulle fallacie (o sofismi), ovvero sugli errori, di natura logica e comunicativa, da cui guardarsi.

Terzo. Verso l’ora di retorica? Insegnare la retorica a scuola come disciplina a sé stante, come si è fatto per tanti secoli in Europa e come si fa ancora in diversi Paesi di tradizione anglosassone, è certamente auspicabile. D’altra parte, “confinare” la retorica a un insegnamento specifico risulterebbe forse riduttivo; non è necessario attendere un cambiamento dei programmi scolastici per insegnare seriamente una retorica argomentata. C’è un modo di insegnare la retorica che è dare le ragioni, chiedere le ragioni, lasciare spazio a un dialogo argomentato. E questo può avvenire in tutte le ore di lezione già previste dal curriculum. Si tratta di educare all’uso della ragione rispetto agli oggetti diversi che la scuola propone.

Ad esempio, un atteggiamento argomentativo presuppone che non basti prendere posizione ma che un “punto di vista” debba essere sostenuto da ragioni; che la posizione dell’altro debba essere considerata, per il valore di verità che potenzialmente può portare; che il dialogo (anche in classe) non sia l’arte del compromesso ma la sfida condivisa ad avvicinarsi ad una soluzione più vera, e così via. Da questo punto di vista, fra l’altro, non c’è un’età minima (o un livello scolastico minimo) per cominciare ad affacciarsi alla retorica, perché non c’è un’età minima per il desiderio e l’impegno di sostenere quello che si desidera, di convincere l’altro; e fa parte dell’impegno educativo accompagnare queste mosse del desiderio con una prospettiva di persuasione ragionevole. 

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