Perché un bambino contento impara di più? In questa domanda, e ancor più nella risposta, si nasconde una visione dell’uomo che il razionalismo e il sentimentalismo che abitualmente respiriamo, nella scuola e fuori, hanno censurato. Non solo; vi si cela anche il pesante bilancio di una scuola che crede di educare, quando in largissima parte si limita ad istruire. Le due cose, infatti, sono profondamente diverse. È una ragione integrale che manca, oggi, nell’educazione. A fare difetto – però – non è un algoritmo razionale, o il guizzo del genio, ma la ragione emotiva. Se le emozioni non sono infatti comprese nella loro vera natura ed educate, impazziscono, e quel che rimane è una razionalità monca. Davvero, allora, per salvare la scuola occorre un ampio giro, più lungo di quanto normalmente si pensi. È il tema affrontato da Manuela Cervi ne La ragione del cuore. Antropologia delle emozioni (Cantagalli), da poco in libreria. IlSussidiario.net ne ha parlato con l’autrice.
Nel suo lavoro lei studia, riabilitandola, la ragione emotiva. Innanzitutto ci spieghi come queste due parole possono stare insieme.
Non riabilito la ragione emotiva. La introduco. Storicamente, al di fuori di ambiti razionalistici che hanno la loro origine in una parte del pensiero greco classico, che influenzano un certo percorso della scienza in epoca moderna, e che ispirano positivismo e idealismo, c’è sempre stata in Occidente la consapevolezza di una ragione ampia, robusta, energica, vitale, strumento dell’uomo per entrare in tutta la realtà, per conoscerla e amarla. Eppure, questa consapevolezza è stata come incanalata in percorsi carsici più o meno sotterranei, che l’hanno spesso celata. Poi, sul versante psicologico a partire dagli anni 60, e sul versante filosofico a partire dagli anni 80, un manipolo di studiosi è riuscito a dimostrare l’intrinseca capacità cognitiva, di pensiero, dell’emozione e in particolare la sua capacità valutativa. Io ho mostrato come e perché questa capacità valutativa sia parte costitutiva del nostro pensare. Non mi risulta – ad oggi – che sia mai stato introdotto il costrutto di ragione emotiva.
Che cos’è un’emozione?
L’emozione, ogni umore, passione o consolidato atteggiamento, sono la modalità che noi tutti continuamente mettiamo in gioco per valutare la realtà rispetto a quanto essa possa o meno garantirci la vita.
Lei scrive: «gli istinti appartengono già alla dinamica emotiva umana; neppure per loro vale il rigido determinismo (stimolo-risposta) del solo livello organico. (…) L’errore consiste nell’interpretare l’istinto umano come biologico, quand’esso è invece al livello biologico di una struttura antropologica, che va molto al di là di esso». Può spiegare?
Ad esempio l’istinto di conservazione mi spinge a vivere, come accade per gli animali, ma se io non trovo una ragione adeguata per vivere, posso suicidarmi; gli animali non lo fanno. Oppure l’istinto alimentare mi spinge a mangiare, come accade per gli animali, eppure io posso decidere di digiunare se ho una ragione adeguata per farlo; gli animali no. Nell’uomo il livello organico è inserito in una struttura complessiva, che contempla anche un io ovvero una libertà, una ragione, una coscienza.
Cioè il livello antropologico.
Sì. È quest’ultimo livello, quello – appunto – antropologico, che in-forma di sé i livelli precedenti (che io ho individuato essere tre: organico, individuale e soggettivo), che lo preparano ma dai quali si differenzia sostanzialmente, rendendoci persone uniche e irripetibili. Non più organismi, individui e soggetti, ma persone capaci di conoscere, di creare, di ammirare, di amare, di distinguere il bene dal male e di scegliere il bene in luogo del male.
Eppure, mai come oggi le emozioni hanno diritto di cittadinanza in particolare tra i giovani e giovanissimi. Ma allora dove sta il problema?
Quello che ha diritto di cittadinanza tra i giovani oggi non sono emozioni e sentimenti, ma il sentimentalismo, che ne è l’assolutizzazione ideologica, così come il razionalismo è l’assolutizzazione ideologica delle capacità elaborative e astrattive che chiamiamo razionalità. Ad esempio di fronte alla morte di una persona cara, di fronte al fatto della sua morte, invece che domandarsi: “Che senso ha questa morte? Perché la sua morte ora? Perché la morte? È finito tutto così? Finisce tutto così?”, commentare: «Quando passo davanti a casa sua provo una profonda emozione»: questo è il sentimentalismo. Quando al sentire viene negata la capacità cognitiva, quando cioè il sentire viene isolato e separato dalla sua intrinseca capacità valutativa, diventa impossibile pensarlo come una modalità operativa della ragione. Le conseguenze educative sono drammatiche: ragazzi in balìa del proprio sentire, fluttuanti tra umori opposti, costantemente sostenuti in questa patologica dipendenza dai modelli mediatici, incapaci di conoscere la realtà fino alla certezza e alla stabilità.
Sta usando espressioni molto forti.
In un’accezione generale il sentimentalismo è una malattia della ragione, che dopo aver separato il sentire dal capire, invece di assolutizzare la mente (razionalismo), assolutizza il corpo e il suo sentire (sentimentalismo). In un’accezione particolare il sentimentalismo è una malattia del percorso conoscitivo bloccato al parametro valutativo, che ho definito dell’alleanza: “Mi ama o non mi ama!”, come quando si sfoglia una margherita.
Torniamo alla ragione. Pare che lei stia quasi difendendo il primato della «ragione emotiva» sulla razionalità. Ma che cosa può mai essere la prima senza la seconda?
Non difendo il primato della ragione emotiva sulla razionalità, tant’è che ho inserito il modo di operare specifico della ragione emotiva in un insieme di modalità operative diverse, che vanno dall’acquisizione del dato (osservazione, ascolto, ecc.) fino a una capacità altamente inferenziale, che opera su parametri valutativi esclusivamente umani come il senso e il valore delle cose, e che ho definito ragione simbolica o segnica, a seconda che si utilizzi un’accezione di matrice europea orientale o europea occidentale (che l’Europa respiri con due polmoni è essenziale se si vuole capire che cosa sia una ragione allargata). Nel libro ho dovuto prevedere maggiore spazio e spunti di approfondimento per la ragione emotiva, solo perché su di essa si concentra la novità scientifica − tra le teorie dell’appraisal −, ed editoriale. Non esistono attualmente altri modelli esplicativi dell’allargamento della ragione.
Lei riporta una frase di Leonardo da Vinci dagli Aforismi: «Ogni nostra cognizione prencipia da sentimenti». In altri termini, Come avviene in noi la scoperta della realtà?
«Osservare non basta – obiettava Paul Cézanne agli impressionisti –, bisogna anche pensare». Come aveva capito il pittore francese contrapponendo il modellare al modulare, una volta che si è osservato il dato non si è ancora stabilita con esso una relazione. Allora è necessaria una diversa modalità operativa della ragione, che stabilisca proprio questa relazione col dato. E questa è esattamente la funzione della ragione emotiva. Infatti per conoscere occorre essere interessati alla realtà, essere curiosi, appassionati, attratti, desiderosi; occorre avere l’ardore di Ulisse; occorre avere il gusto delle cose, sentirne il sapore. «Chi ha raggiunto lo stato di non meravigliarsi più di nulla dimostra semplicemente di aver perduto l’arte del ragionare e del riflettere» diceva Max Planck. Per conoscere occorrono la fiducia e la speranza che il mondo sia conoscibile.
Per conoscere, dunque, occorre aprirsi alla realtà con simpatia…
O con empatia, come diceva Edith Stein, o con amicizia, come diceva Agostino («Nihil nisi per amicitiam cognoscitur»), o con l’eros, che con il proprio calore scioglie l’immobilità della razionalità verso ciò che è autentico e vero, come scriveva Pavel Florenskij ai propri figli. Occorre amare il reale, come dice Jean Luc Marion. Occorre gratitudine, come riconosceva il premio Nobel per l’economia John Nash. Occorre entusiasmo, come scriveva Eugen Fink. Da Eschilo a Mounier occorre soffrire. La ragione emotiva è una capacità di giudizio lungo tutta la traiettoria vitale ed esistenziale, costituita dall’alternativa tra due possibili valutazioni opposte e inconciliabili, che non lasciano spazio a opzioni terze: un costante out-out, un sì o un no di fronte al reale. Qui il pensiero cresce, perché è vivo, vitale e immediato, in relazione con una realtà viva. Qui la ragione si allarga, perché l’affettività la investe: «Dietro il pensiero c’è tutto l’insieme delle inclinazioni affettive e volitive» scriveva Lev Vygotskij.
Dunque, l’emotività, che ha un radicamento biologico, giocherebbe un ruolo fino alla più alta sfera spirituale, estendendosi a tutto lo spettro del nostro paragone con la realtà, culminante in ciò che lei chiama ragione segnica. Può spiegare?
«Per la psicoanalisi l’uomo è spinto, alle spalle, da pulsioni, dall’Es. Per la psicoanalisi ogni energia si riduce a quella delle pulsioni, essa è potenza istintiva, per essa ogni vis è una vis a tergo» scriveva Viktor Frankl, che ricordava come lo stesso Freud fosse il primo a dire che la vis a tergo è la sola cantina dell’edificio antropologico. Io ho mostrato principalmente due cose: come questa vis a tergo sia espressa linguisticamente nel nostro codice linguistico da sole cinque categorie su quattrocento esprimenti l’intera vis, che nelle sue vette più alte diventa quella «forza di reazione dello spirito» che innalza l’uomo al di sopra di qualsiasi condizionamento e lo rende capace di opporsi ad ogni tipo di circostanze esteriori. Ho poi mostrato come questa forza dello spirito associata alle più complesse capacità razionali, che sono di carattere induttivo, crei una modalità operativa della ragione, che ho definito simbolica o segnica, perché capace di cogliere il tutto del reale. Senza una ragione segnica l’uomo non potrebbe fare scoperte scientifiche, come non potrebbe scrivere sinfonie.
Chi ha separato il sentire dalla sua capacità valutativa?
Ogni razionalismo di vecchia o di nuova data. E ogni razionalismo si fonda sul dualismo, comunque lo si voglia interpretare. Separa il sentire dall’intelligĕre chiunque viva in sé una disunità, una disorganicità, una schizofrenia.
Andiamo alle implicazioni educative del discorso fatto finora. Leggo: «la natura dell’opera educativa è visibile, più che nella pietà Vaticana, nella pietà Rondanini».
Nella pietà Vaticana si vede il risultato dell’opera, mentre nella pietà Rondanini si vede lo scalpello che lavora su un pezzo di pietra in parte ancora informe, da cui la pietà come i Prigioni non sono ancora completamente usciti in tutta la loro «possenza» – possiamo coniare questo termine? Ogni essere umano già a due giorni di vita, o a tre mesi, a otto anni o a sedici è questa possenza che deve essere liberata dalle strettoie di ciò che non è. L’uomo è fatto per meravigliarsi e stupirsi, non per aver paura; è fatto per la curiosità e l’interesse, non per la noia; è fatto per amare, non per odiare ed essere odiato; è fatto per sperare, non per la più cupa disperazione. In una parola è fatto per il bene. Da ogni essere umano chi educa deve tirar fuori ogni più intima fibra di questa possenza, che è l’uomo, fatta per quell’infinito, che è la realtà.
Qual è a suo modo di vedere lo stato dell’educazione oggi per come è abitualmente concepita e attuata?
L’insegnamento di qualsivoglia disciplina oggi è nella gran parte dei casi attestato al livello unicamente istruttivo, necessario certo, ma non sufficiente a costituire il tuttotondo della professione docente. Ad esempio l’ultima modalità di reclutamento degli insegnanti è nuovamente un concorso a cattedre, che valuta esclusivamente la conoscenza della propria disciplina, come se chi conoscesse a memoria la Commedia dantesca fosse di per ciò stesso capace di insegnarla. Dal novero delle capacità di insegnamento mancano all’appello – semplificando in maniera un po’ riduttiva – quelle formative ed educative.
Può farne un esempio più specifico?
Laddove si sottragga ragionevolezza ai bisogni dell’alunno, all’interesse e al gusto per le cose (i Programmi didattici del ’55 parlavano del «gusto di imparare»); all’ammirazione, allo stupore, alla meraviglia che la realtà desta; alla fiducia in se stessi che i ragazzi fragilissimi devono poter acquisire; alla loro sana inquietudine, alla stima che noi adulti dobbiamo loro, all’entusiasmo di fare piuttosto che alla cupezza dello sconforto, alla percezione del senso e del valore che le cose hanno, lì si insegna secondo una modalità che imbalsama la ragione fin nelle sue modalità strettamente razionali, che hanno invece bisogno di flessibilità. Infatti i ragazzi oggi tendono a essere rigidi, a non usare duttilmente la ragione, ma a proiettare sulla realtà opinioni preconfezionate assorbite acriticamente un po’ ovunque.
Quando un insegnante è anche educatore?
Quando sa che cosa fa la differenza tra un mero individuo e un io, e poi quando attraverso quella porzione di realtà delimitata dalla propria disciplina tira fuori «per via di togliere le schegge di marmo» − come diceva Michelangelo − quella libertà, quella consapevolezza, quel pensiero robustamente e intelligentemente critico, che è l’io in ogni frangente della vita.
Le potrei dire che riesce, in un sol colpo, a fare piazza pulita di «progressisti» e «conservatori». Dica invece dove hanno ragione, nei limiti del possibile, cioè di una comprensione parziale, gli uni e gli altri.
Chiediamoci: perché un bambino contento impara di più? Perché l’essere umano è fatto per la gioia, come mise in musica Beethoven nella sua ultima sinfonia, tre anni prima di morire. La contentezza è una delle ventidue modalità con cui il nostro codice linguistico esprime la gioia. La gioia è un pezzo del bene per cui siamo fatti già a partire dal nostro livello organico (sul versante neurobiologico dell’apprendimento è stata dimostrata una maggiore trasmissione sinaptica in condizioni di gioia, e viceversa una minore trasmissione sinaptica in stati di tristezza. La trasmissione sinaptica incentiva la capacità di apprendimento). La coscienza del bene che siamo e per cui siamo fatti è «conservatrice», il tendervi è «progressista».
Il libro contiene una parte rilevante che risulta a prima vista assai singolare. È quella dedicata ad una mappatura delle emozioni o meglio alla loro «categorizzazione». Qual è il senso di questo lavoro situato in terra di confine tra filosofia, antropologia e linguistica?
Ciascuno di noi fa la propria unica e irripetibile esperienza del mondo, e poi la comunica, attraverso gli strumenti categoriali, concettuali e linguistici, che eredita parlando una certa lingua. E la lingua è veicolo ed espressione della cultura di un popolo e contiene la memoria della sua esperienza, come ha scritto Benjamin Whorf, e in quanto tale guida e modella i processi di conoscenza. Ad esempio i giapponesi hanno codificato amae, l’esperienza del sentirsi dipendenti, protetti e curati all’interno di una relazione, che noi italiani sperimentiamo certo, soprattutto da piccoli nel rapporto con la madre, ma che poi non abbiamo circoscritto categorialmente. Forse non pensiamo al dipendere da chi ci ama come elemento di maturità umana, e quindi facciamo esperienza della realtà privi di questo strumento di comprensione e di espressione, che è la relazione di dipendenza da chi ci ama. Oppure gli Utku, una popolazione eschimese dell’Artico canadese, non ha alcun termine per la rabbia, perché la ritiene espressione di un modo di relazionarsi immaturo. Invece sui 2.600 termini che in italiano esprimono il sentire, il 14 per cento è dedicato proprio alla rabbia. E quindi un parlante italiano tende a fare esperienza della realtà in termini oppositivi. Oppure vogliamo dire che solo il 2 per cento del nostro lessico relazionale è destinato a farci fare esperienza di felicità?
Allora quali considerazioni si possono fare a proposito del lessico emotivo dell’italiano?
Esso ci rivela inequivocabilmente che siamo poco felici, ma proviamo anche poco senso di colpa; che non riusciamo ad attribuire valore al bene, mentre lo attribuiamo più spesso al male; che facciamo cioè fatica a fare un’esperienza esclusivamente umana della realtà sia in termini positivi che negativi. E questo dato è importantissimo sotto il profilo educativo: quel che manca è il processo che dall’individuo e dal soggetto fa emergere la persona, ovvero l’educazione, che evidentemente non manca solo oggi, ma è mancata in tutti i dieci secoli circa che hanno contribuito a codificare la nostra lingua.
Le cronache scolastiche sono piene di una situazione−tipo che potremmo riassumere così: docenti demotivati incapaci di intercettare l’interesse di giovani ormai estranei al mondo degli adulti, e definiti come apatici o assorbiti in un mondo a parte. Da cui l’improponibilità e l’irrilevanza del «passato», da Omero a Ungaretti passando per Picasso. Che ne pensa?
Che insegnano in maniera razionalistica ovvero con metà della ragione. Quando io metto in campo o vedo mettere in campo la curiosità, l’interesse, l’aspettativa, la passione, il gusto, la sensibilità, la sicurezza, lo stupore, la meraviglia, la simpatia, la stima, l’entusiasmo, la gioia fino alla felicità, cioè fino alla percezione del senso delle cose, i ragazzi si riaccendono, si illuminano, e fanno con naturalezza passi da gigante ritenuti impossibili.
A conclusione del suo lavoro, a proposito della necessità di ricostruire una ragione integrale, lei riserva un posto speciale alla bellezza. Perché?
Dalla riduzione della ragione ovvero della capacità conoscitiva, ho mostrato come derivi la condizione in cui i ragazzi si trovano oggi, caratterizzata sul versante razionale da dualismo, esperienzialismo, concettualismo, logicismo, tecnicismo, determinismo, meccanicismo, progressismo, scetticismo, agnosticismo, nichilismo, relativismo, positivismo, materialismo, utilitarismo, fideismo; e sul versante relazionale da riduzionismo, sentimentalismo, emotivismo, edonismo, estetismo, moralismo, soggettivismo, individualismo, narcisismo, collettivismo, cinismo, eticismo, manicheismo, fondamentalismo…
Mi sta facendo un elenco di parole!
Non è un elenco di parole ma la pesantissima eredità che gli adulti hanno consegnato loro. Rispetto a questa situazione le principali risorse educative diventano – in sintesi − la ricerca della verità come scopo del conoscere; lo sviluppo di tutte le capacità elaborative e astrattive, e in particolare della capacità di giudizio critico; l’esperienza della bellezza. Sarebbe più corretto parlare di esperienza di tutti i trascendentali (esperienza del bene, di essere amati e stimati, della verità delle cose, della giustizia, ecc.), ma alcuni di essi (come verità, giustizia, ecc.) sono stati così profondamente ideologizzati, da risultare concettualmente ambigui, mentre la bellezza possiede una concretezza irriducibile.