Il tempopienismo, dispiegatosi per circa quarant’anni nella scuola italiana, non era ai suoi esordi solo un teorema sindacale sostenuto perché induceva quasi il doppio di posti docenza a parità di alunni.

Anzi, all’inizio degli anni 70, quando cominciò a decollare nelle scuole sperimentali che a Milano erano una quindicina, i docenti tempopienisti si consideravano un’avanguardia didattica e pedagogica rivoluzionaria, portatrice di una totale e gigantesca trasformazione della scuola e del rapporto docenti-alunni-mondo. Tutto nella scuola doveva essere cambiato!



Fine della dimensione cattedratica del docente: il tempopienista evitava di usare la cattedra e a maggior ragione la pedana, spaventoso simbolo di una preminenza autoritaria. 

Fine del ruolo passivo dello studente, sostituito da una problematizzazione dell’apprendimento e dalla valorizzazione della cultura intrinseca familiare e sociale e dello spirito di iniziativa del giovane, pratiche già ben espresse nell’insegnamento di maestri della pedagogia innovativa come Mario Lodi che però non avevano mai preteso il gigantismo dei curricoli.



Fine dell’“individualismo”, sostituito dal lavoro di gruppo osservabile nella disposizione dei banchi e nella associazione degli studenti durante il lavoro di classe.

Fine del monolitismo sacrale del libro di testo a favore della diversificazione delle fonti informative tramite la biblioteca di classe e l’uso dei quotidiani o delle riviste.

Fine della fruizione passiva delle informazioni e sviluppo del senso critico democratico tramite dibattiti e scritti personali pubblicati e fatti circolare dentro e fuori dalla scuola tramite il giornalino di istituto.

Fine dell’apprendimento solo teorico e sviluppo dell’apprendere-facendo, dove il prodotto personale o di gruppo veniva presentato a fine anno a tutti dentro e fuori dalla scuola. Da qui le piu svariate tipologie di produzione, dal legno alla ceramica, alla tela, al cartone ecc.



Fine del grigiore scolastico tramite rappresentazioni divertenti: il teatro, strumento potente e gradito di espressione e di affermazione o modifica del ruolo di ciascuno nella vita di gruppo.

Fine della valutazione selettiva sostituita dalla valutazione positiva, descrittiva ed incoraggiante. E fine quindi delle bocciature, possibili, ma non sempre, solo se richieste dai genitori.

Fine della frammentazione disciplinare della cultura e della mancanza di comunicazione tra i docenti: al suo posto armonia, sintonia, compresenza, condivisione dei membri del consiglio di classe sovrano e negatore della separatezza del singolo docente.

Fine della scuola isolata dal mondo e sviluppo delle visite guidate ai luoghi più disparati, dal quartiere alle aziende, alle città sempre più distanti.

Mi fermo qui ma già basta per comprendere e ricordare il clima e le suggestioni particolari che l’utopia tempopienista suscitava nel paese e come fosse difficile contrastare la bellezza (e la suadenza) delle sue proposte. Ed infatti nessuno le contrastava, come nessuno contrasta il desiderio della felicità e della pace. Solo il realismo può farlo.

Ma il realismo non era e non è il criterio di valutazione e organizzativo della classe dirigente italiana. Anzi, il suo modo di operare è sempre quello di un utopismo in pubblico sovrapposto ad un traffichio clientelare in privato.

Da qui nasce la debolezza assoluta dell’iniziativa di governo della scuola, la sottomissione alle filosofie ed alle minoranze dei centri sociali e l’organizzazione funzionale solo alle assunzioni ed ai trasferimenti.

E più la filosofia tempopienista vinceva, più aumentavano le ore del curricolo alunni ed il numero di posti per i docenti, a cui veniva ovviamente risparmiato il tempo pieno di presenza a scuola.

Ma proprio per realizzare l’utopia didattico-pedagogica sarebbero state necessarie turbe di insegnanti a tempo pieno capaci di attuare le promesse. Sarebbe stato necessario un supporto logistico e strumentale enorme che sempre è mancato. Per questo nelle scuole tutti hanno potuto osservare il fallimento dell’utopia, avvenuto dall’interno ancor prima che per la fine dei soldi, quando a gestire il tempo pieno si trovarono sempre di più insegnanti “tradizionali” cioè mamme vogliose di fare le tre-quattro ore di lezione e correre a casa. I sempre meno docenti militanti, quelli in buona fede, erano costretti a sobbarcarsi tutti gli oneri organizzativi, come tenere in ordine il laboratorio (di falegnameria, di cartonaggio, di ceramica, di informatica, ecc.) con mezzi di fortuna, trovare specialisti a costo zero, organizzare gite di tre, quattro, sette giorni togliendo tempo alla famiglia, sempre sostenuti dalla massa dei colleghi che li incitavano ma non partecipavano.

Ed alla fine i tempopienisti utopisti andarono in depressione o si inacidirono. Qualcuno cominciò a pretendere riconoscimenti economici, o turnazioni negli oneri o riconoscimenti di potere. E così i collegi docenti si frantumarono e si incattivirono. Solo la lotta ai “tagli del governo” e per l’espansione delle classi a tempo pieno ogni tanto, ritualmente, stancamente, riuniva e risvegliava dall’amara routine la totalità dei docenti.

Adesso il tempopienismo è morto. Nessuno sembra invocarlo più. Nemmeno le mamme che sono l’ultima argomentazione a favore rimasta.

Stanno forse nascendo nuove utopie? Sembra di sì, girano nuove parole magiche, ma la prassi ministeriale e statale e quindi i risultati reali sono immutabili: sostenere la dittatura della graduatoria nazionale, la transumanza dei docenti, la spesa tutta per stipendi, l’ingovernabilità del personale.

Coprendo il tutto con profumi moralistico-utopistici.