Entro tre mesi dall’inizio delle lezioni, ogni anno scolastico, il consiglio di classe deve predisporre la stesura del Piano Didattico Personalizzato (Pdp) per gli alunni che presentano una diagnosi di Dsa (disturbi specifici di apprendimento). Lo chiedono espressamente la Legge 170/2010, il DM 5669 e le annesse Linee guida sui Dsa del 12 luglio 2011.
Cosa è un Pdp? Diciamo innanzitutto che è un documento elaborato da una squadra di professionisti: da tutti i componenti del consiglio di classe, dal referente del Dsa per la scuola, dalla famiglia, e, per certi versi, da uno specialista (psicologo, neuropsichiatra).
È obbligatorio? Per il DM sembra di no, ma nelle Linee guida si parla di un documento di programmazione in cui vada esplicitato, progettato e documentato con atto formale, in modo sinergico, un percorso didattico a misura degli alunni e degli studenti con Dsa. Mediante il Pdp la scuola garantisce ed esplicita, secondo la normativa vigente in materia di disturbi specifici di apprendimento, adeguati interventi didattici individualizzati e personalizzati.
Vedremo fra poco la differenza tra due termini: individualizzato e personalizzato. Intanto osserviamo la struttura del Piano secondo i modelli allegati alle Linee guida. Ad uno sguardo generale possiamo distinguere in un Pdp tre parti. La prima contiene i dati anagrafici dell’alunno, la tipologia di disturbo. La seconda: le attività didattiche individualizzate e personalizzate, gli strumenti compensativi utilizzati, le misure dispensative adottate, articolate per le discipline coinvolte dal disturbo. La terza: le forme di verifica e valutazione che si intendono applicare, se diverse da quelle consuete.
Sono compensativi gli strumenti didattici e tecnologici che sostituiscono o facilitano la prestazione richiesta nell’abilità deficitaria, per esempio: la sintesi vocale, che trasforma un compito di lettura in un compito di ascolto; il registratore, i programmi di video scrittura, la calcolatrice, tabelle, formulari, mappe concettuali ecc. Non è sufficiente, però, che i docenti individuino e propongano tali strumenti. Devono “fare acquisire allo studente competenze adeguate nell’uso degli strumenti compensativi”. Nelle Linee guida dunque troviamo, per la prima volta in un documento ministeriale, espressa la necessità di competenze per l’utilizzo. In precedenza ci si limitava esclusivamente a legittimare delle concessioni, del tipo “lasciate usare il registratore, la calcolatrice”. Da ora in poi occorre “insegnarne” l’utilizzo adeguato ai fini della gestione dei disturbi dell’apprendimento.
Per misure dispensative si intendono tutti quegli interventi finalizzati ad evitare situazioni di affaticamento e di disagio in compiti direttamente implicati dal disturbo, per esempio far leggere ad un alunno con dislessia un lungo brano. L’adozione delle misure dispensative, che non richiede la segnalazione ex L.104/92, ma soltanto la diagnosi dello specialista, è fondamentale. Tuttavia, al fine di non creare percorsi immotivatamente facilitati, che non mirano al successo formativo, essa dovrà essere sempre valutata sulla base dell’effettiva incidenza del disturbo sulle prestazioni richieste, in modo tale da non ridurre il livello degli obiettivi di apprendimento per gli alunni e gli studenti con Dsa. Per esempio, è permesso assegnare all’alunno un tempo aggiuntivo o la riduzione del materiale di lavoro nelle verifiche, ma non abbassare il livello della prova.
Il Pdp, strutturato nelle parti sopra accennate, deve essere firmato da tutti i membri del consiglio di classe, dalla famiglia e dal dirigente scolastico. Rappresenta il documento di un lavoro comune tra i diversi protagonisti presenti nell’area del quadrilatero dello studio (docente-materia-alunno-famiglia). È appunto un piano.
Il termine “piano” non è nuovo nella scuola italiana. Prima della dittatura della pedagogia per obiettivi e della programmazione comportamentista era fondamentalmente il documento snello e leggero del lavoro didattico di una settimana, di un mese, di un anno di scuola. Ciò che è nuovo, come uso del termine più che come concetto, sono nel caso in questione gli aggettivi qualificativi didattico e personalizzato.
Innanzitutto fermiamoci sull’attributo “didattico”. A me non sembra né inutile né ridondante questa prima caratterizzazione. Infatti con la legge n.170/2010 e il DM 5669 del 2011, si allargano le competenze e le possibilità d’intervento delle scuole rispetto ai compiti ad esse attribuiti dalla normativa precedente. I docenti pertanto sono chiamati a svolgere un ruolo attivo sia nella “identificazione precoce” di casi sospetti di Dsa e nella conseguente comunicazione alle famiglie nel caso in cui “persistano difficoltà”, sia nel “monitoraggio periodico delle misure educative e didattiche di supporto, per valutarne l’efficacia e il raggiungimento degli obiettivi, sia nella cooperazione scuola-famiglia. Qualificare un piano di lavoro con i Dsa come “didattico” vuol dire riaffermare la specificità della funzione docente rispetto agli apporti specialistici e al contributo delle famiglie. Come dire: al docente viene giustamente riconosciuto il ruolo di soggetto responsabile, autonomo, competente senza nessuna subalternità (rispetto, per esempio, alla psicologia) nella situazione didattica caratterizzata dalla triangolazione docente-materia-alunno.
Certo è un riconoscimento che rischia di rimanere sulla carta, come enunciazione di principio, in quanto la prassi più diffusa nella scuola è inquinata da pretese di egemonia tecnica e scientifica da parte di molti specialisti esterni (neuropsichiatri, logopedisti, psicologi), avanzate nel nome di una presunta oggettività e/o maggiore funzionalità pratica della scienza e della tecnica (per esempio, terapeutica) anche nell’insegnamento rispetto alla pedagogia e alla didattica.
Spero di non essere frainteso. A me è capitato più volte, come dirigente di scuola, di dover difendere me, i docenti e persino le famiglie contro la miopia di chi nelle riunioni sui Pdp e sul Pei pretendeva di avere l’ultima parola sul problema in esame in nome del fatto che la psicologia è “più scienza” delle discipline implicate nelle attività di insegnamento. So bene che non tutti gli specialisti hanno simile posizione. So anche che alcuni docenti si arroccano, prima ancora di entrare in rapporto con loro, contro psicologi, logopedisti, neuropsichiatri, assistenti sociali, in una difesa corporativa che rasenta la chiusura mentale e l’incompetenza professionale. Ci sono anche insegnanti che, rinunciando al diritto-dovere di “fare” imparare, subiscono supinamente e beotamente i dettami che provengono dai laboratori di certi specialisti, ignorando che anche in “considerazione della presenza sempre più massiccia di alunni con Dsa nelle classi diviene sempre più necessario fare appello alle competenze psicopedagogiche dei docenti ‘curricolari’ per affrontare il problema, che non può più essere delegato tout court a specialisti esterni” (Linee guida pag. 9).
Quello che qui mi interessa non è attizzare il dibattito sul rapporto tra le discipline nell’educazione, ma affermare che uno degli elementi positivi della legge e delle Linee guida è proprio il fatto che venga riconosciuta una specificità professionale incontrovertibile, identificabile come didattica responsabile o della compartecipazione: “Tutti i modelli e i metodi possono essere utili, se convocati nel momento giusto, quando servono. […] Una didattica responsabile… viene generata dalla dinamica di un soggetto che ha più di tutto a cuore il destino proprio e dell’allievo. Il servilismo verso la vulgata scientifica, che impone alla fine il tentativo patetico di recupero del momento educativo, è contro l’immagine di un autentico professionista, anche a livello civile. Lo scientismo è un grande pericolo e risponde in modo errato all’esigenza di aggiornamento” (E. Rigotti, Conoscenza e significato, Mondadori, 2009, p. 28).
È responsabile una didattica, che conosce e sa rispettare il linguaggio e i limiti della disciplina, la natura dell’oggetto e del metodo da essa dettato, la consapevolezza del compito, la ricerca e la cura dell’essenziale, lo stile argomentativo e cooperativo non solo tra gli addetti ai lavori ma anche con gli alunni e i genitori. Nell’ottica della compartecipazione viene confermato ciò che il dettato ministeriale sui Dsa sottolinea sulla “validità di un apporto specialistico, ovvero di interventi diagnostici e terapeutici attuati da psicologi, logopedisti neuropsichiatri in sinergia con il personale della scuola”, senza ambiguità, sbavature ed egemonie.
In un’ottica di compartecipazione corresponsabile è più facile perseguire il successo formativo non solo degli alunni e studenti con Dsa ma di tutti gli allievi di una scuola, come accennerò fra poco. È più facile perché diventa più semplice la personalizzazione.
Consideriamo ora in che senso il piano può e deve essere personalizzato.
Le Linee guida ricordano che i termini individualizzato e personalizzato non sono da considerarsi sinonimi. Giustamente. Di fatto, però, sottendono un’idea riduttiva di personalizzazione.
D’accordo sul concetto di azione formativa individualizzata, che “pone obiettivi comuni per tutti i componenti del gruppo-classe, … adattando le metodologie in funzione delle caratteristiche individuali dei discenti, con l’obiettivo di assicurare a tutti il conseguimento delle competenze fondamentali del curricolo, comportando quindi attenzione alle differenze individuali in rapporto ad una pluralità di dimensioni” (Linee guida, pag. 6). La didattica individualizzata consiste nelle attività di recupero individuale o di potenziamento di determinate abilità o di acquisizione di specifiche competenze, anche nell’ambito delle strategie compensative e del metodo di studio.
Non sono del tutto convinto di ciò che le Linee guida affermano rispetto alla didattica personalizzata, che sarebbe quella che ponendosi “obiettivi diversi per ciascun discente”, calibra l’offerta didattica e le modalità relazionali sulla specificità ed unicità a livello personale dei bisogni educativi. Per me è personalizzata l’azione didattica quando viene svolta e valutata come tempo e strumento per “stimolare il soggetto affinché vada perfezionando la capacità di governare la propria vita o, in altri termini, di sviluppare la propria capacità di rendere effettiva la libertà personale, partecipando con le sue caratteristiche peculiari alla vita comunitaria” (Hoz Garcia), che nella scuola è trama di rapporti in funzione dell’apprendimento.
Senza libertà, senza un’ipotesi di senso da proporre e condividere, senza la possibilità di un’esperienza di comunità impegnata a verificare tali ipotesi nell’esplorazione della realtà mediante le discipline di studio, non c’è personalizzazione. Personalizzare è pensare e “guardare” l’allievo come soggetto e fine dell’azione didattica e della scuola; è agire con l’allievo nel rispetto della sua libertà e dignità, condividendo e producendo segni in modo che nel quadrilatero dello studio (docente-materia-alunno/classe-famiglia) e nel contesto dei suoi rapporti scolastici, pensi ed agisca da persona. Ciò, per esempio, comporta che il docente non lavori semplicemente per, ma con l’alunno, con questo alunno, in questo gruppo di lavoro. Comporta, inoltre, che ogni singolo insegnante cooperi con gli altri docenti, i genitori e gli allievi, andando alla ricerca del metodo di lavoro che più si adatta alla storia e agli stili di apprendimento di ognuno.
La personalizzazione, esigenza antica della pedagogia e della didattica (Chiosso), non s’improvvisa né si delega all’elaborazione di un piano. Se vogliamo che davvero il piano didattico per i Dsa sia personalizzato occorre che la personalizzazione diventi criterio organizzativo dello spazio e del tempo scuola, concretizzazione della centralità di ogni alunno (non solo di quelli con disturbi), principio metodologico dell’azione didattica in funzione del successo formativo di tutti, dimensione della professionalità docente in relazione alla progettualità, allo svolgimento e alla valutazione dei piani di studio.
La personalizzazione è l’esito di chi accetta “il rischio educativo”; esercizio di consapevolezza e di scelte pertinenti rispetto al fatto che lo studente non è il destinatario, ma il protagonista dell’apprendimento nelle sue diverse forme. Rischio da condividere accettando diversità e differenze nella costruzione dei percorsi scolastici.
In questa prospettiva si capisce il ruolo della famiglia rispetto al Pdp sia in fase di elaborazione, sia in fase di svolgimento e verifica; famiglia come co-agonista e non semplicemente “cliente” da fidealizzare e tantomeno come antagonista o “padrone” ope legis da subire. Si capisce anche che la personalizzazione è l’arte con cui condurre al successo formativo (inteso come piena realizzazione della pesona anche mediante l’istruzione) tutti gli alunni, tutti gli studenti. Unici e diversi infatti non sono solo quelli con Dsa.
Ben venga dunque il Pdp, ma se rinunciamo alla pratica della personalizzazione diffusa diventa più difficile anche sostenere gli allievi che presentano disturbi o problemi particolari.