Caro direttore,
ho osservato con più attenzione quello che ho pensato di chiamare “positivismo scolastico” quando durante una gita d’istruzione un mio alunno, di fronte alla guida turistica che incominciava a esporre le bellezze del Rinascimento, esplode in un: “Odio il Rinascimento!”. Si badi bene, questo alunno ha una resa scolastica molto alta, naviga nell’ordine dell’otto. Mi sono avvicinato a lui e dopo aver fugato i dubbi che il suo odio non era per il Rinascimento gli ho chiesto il perché della sua frequenza a scuola, se quelli sono i suoi sentimenti. Mi ha risposto secco: “è la tangente da pagare per realizzare il mio sogno”, facendomi intendere che questa situazione fosse, secondo lui, un destino ineluttabile e che non ci fossero altre strade. 



Quali solo le ragioni di questo convincimento? Risiedono, a mio modo di vedere, in ciò che si potrebbe chiamare positivismo scolastico. Il test che fa riconoscere tale positivismo sta nel senso di soffocamento avvertito da quel ragazzo e forse anche da molti altri. 

Il positivismo scolastico è provocato, per esempio, dalla riduzione di tutto il lavoro di insegnamento-apprendimento a delle procedure da rispettare: l’assillo dei programmi da svolgere a tutti costi (si noti che si parla ancora in termini di programmi e non di indicazioni nazionali o linee, sfociando in una didattica enciclopedica), registri da compilare, norme da rispettare spesso solo formalmente, verbali… In questo modo ci si difende da eventuali osservazioni, ma si muore. Con questo non voglio dire che quanto dettato dalla norma o da altro deve essere eluso, ma il lavoro reale da fare con la disciplina di fronte agli alunni non può ridursi a questo.



Un altro esempio lo si può riconoscere nel modo di leggere una poesia; una lettura, per esempio,  solo analitica, che fa fuori tutta la portata umana dell’opera stessa, il fatto che il suo centro è il rapporto di un uomo – l’autore – che vuol parlare ad un altro uomo, l’alunno. In questo modo l’analisi, che è certamente di aiuto, diventa dialisi, cioè frantumazione del testo; e questo porta la nausea nella lettura fugandone il fascino.

Si potrebbe concludere con un terzo esempio che riguarda soprattutto l’ambiente scolastico, che invece di essere argomentativo, cioè che tutto parla, anche il pavimento, delle ragioni per cui è bello studiare, ti suggerisce scetticismo, come se dicesse all’alunno: “amico mio, fidati solo di ciò che puoi provare o sentire!”. Anche qui non voglio dire che la dimostrazione scientifica sia da buttare via, dico solo che tutta la ragionevolezza di un esperimento non si esaurisce positivisticamente al solo dimostrabile, perché ciò risulterebbe asfissiante.



C’è un via d’uscita? La soluzione risiede nell’indicare azioni concrete e luoghi in cui una soluzione è già in atto. L’azione concreta che potrebbe dare una svolta all’opprimente cappa a volte posta dall’istituzione scolastica su coloro che operano nella scuola la ricupero da Albert Einstien. Non credo che il grande scienziato sarebbe stato in disaccordo con questa analisi della situazione della scuola. Lo si può vedere là dove disse che “la più bella emozione che possiamo provare è il senso del mistero; sta qui il seme di ogni arte e di ogni scienza”. La serietà posta in ogni arte, per esempio nella lettura di una poesia, o di ogni preoccupazione scientifica o tecnica, Einstein la intravede nell’attenzione posta all’orizzonte umano, cioè a quella potente spinta che l’alunno e l’insegnante percepiscono nel loro cuore verso un orizzonte che sfora, pur non eliminandolo, il limite della norma, del programma, dell’analisi, della dimostrazione scientifica.

Solo così si incomincia a respirare l’aria fresca che entra dalle finestre aperte dell’aula. Solo così si rompono gli schemi, lo studio come “tangente” da pagare, per andare verso “lo gran mar dell’essere”, verso il significato. Si rompe così quella “sicurezza” che coarta l’alunno e gli fa odiare la scuola. Concretamente bisogna cercare luoghi in cui alunni e insegnanti possano trovare questo tipo di attenzione e modalità di lavoro. Due esempi significativi: “I colloqui fiorentini” di Diessefirenze per gli alunni e le “Botteghe dell’insegnare” di Diesse.