«Non resta che far torto, o patirlo», ammette amaramente, in punto di morte, Adelchi, il protagonista dell’omonima tragedia di Manzoni. Coinvolto in una guerra che non avrebbe voluto, sperimenta la contraddizione insanabile fra le circostanze in cui si trova a vivere e il nobile slancio del suo cuore: «ei mi comanda / alte e nobili cose; e la fortuna / mi condanna ad inique». 



Viviamo in un tempo in cui sembra non esista alternativa: se non ti riconosci nella maggioranza, ti viene il dubbio di aver sbagliato pianeta; se non stai dalla parte dei vincitori del momento, non ti resta che lamentarti e cercare di far sentire la tua voce. E la rabbia sale: sei costretto a subire o sei chiamato a reagire. A sfogare almeno la tua indignazione davanti al supremo tribunale dell’opinione pubblica, che sui media imperversa fino alla nausea. E tuttavia, dopo che ti sei infuriato, cosa risolvi? A questo punto «non resta che far torto, o patirlo»? è davvero tutto qui? 



Sul palcoscenico della scuola si è vista quest’autunno una dialettica simile: gli studenti che non volevano “okkupare” non hanno potuto far altro che sopportare impotenti; gli insegnanti che non volevano bloccare le attività extra hanno dovuto mestamente piegare la testa. Eppure il desiderio era semplice: fare lezione. Come Renzo voleva soltanto sposarsi con Lucia. Sembrava così normale. Ma ci fu qualcuno che decise: «questo matrimonio non s’ha da fare». Certo, è veramente un paradosso quello da cui siamo stati travolti: chi voleva salvare la scuola l’ha bloccata, intimando che lezione «non s’ha da fare». Poi, tolte le novembrine maschere da rivoluzionari (ma carnevale non viene a febbraio?), tutto è tornato come prima, e chi se ne frega più niente di cambiare il mondo. Intanto abbiamo rivissuto l’assalto ai forni del 1628, quando a Renzo risultò evidente che se una folla vuole il pane, però si mette a distruggere i forni, come pretenderà mai di ottenere il pane?  



«Veramente, la distruzione de’ frulloni e delle madie, la devastazion de’ forni, e lo scompiglio de’ fornai, non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane: ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva. Però, senza essere un gran metafisico, un uomo ci arriva talvolta alla prima, finch’è nuovo nella questione; e solo a forza di parlarne, e di sentirne parlare, diventerà inabile anche a intenderla. A Renzo in fatti quel pensiero gli era venuto, come abbiam visto, da principio, e gli tornava ogni momento. Lo tenne per altro in sé; perché, di tanti visi, non ce n’era uno che sembrasse dire: fratello, se fallo, correggimi, che l’avrò caro».

L’istinto di gridare la propria rabbia prevale sull’interesse alla verità che si apre anche alla correzione. Cosa può fare allora un uomo che voglia affrontare un’ingiustizia? Renzo ci ha provato con la legge, andando dall’Azzeccagarbugli: «vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia». Ma siccome la legge non lo tutela (anzi, «quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l’impotenza de’ loro autori»), si fa un’idea ben precisa: «La farò io, la giustizia, io! È ormai tempo». 

Sarebbe stato un buon grillino, perfino nella forma, che ricalca sintatticamente il vecchio “te la do io, l’America”. Siamo a questo punto, mi pare: protestare contro tutto, sognare una giustizia fai da te: «Sì, la farò io, la giustizia: lo libererò io, il paese: quanta gente mi benedirà» (e qui il tono, più che grillino, appare berlusconiano).

Dove sta il punto debole della posizione di Renzo? Nella sua natura reattiva. Che infatti replica il meccanismo del potere che vorrebbe combattere e, soprattutto, ha il difetto di dimenticare il motivo bruciante dell’ingiustizia, cioè Lucia. Così che quando lei prova a placare l’istinto omicida del promesso sposo, viene fulminata da un «io non v’avrò; ma non v’avrà né anche lui». Bella giustizia, quella che si dimentica di lei! «a questo mondo c’è giustizia, finalmente! – Tant’è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica».

L’impeto caratteriale di quanti (come me) vorrebbero controbattere punto su punto alle ingiustizie viene messo in discussione da uno che ha compiuto davvero quell’omicidio che Renzo immagina o minaccia soltanto. È fra Cristoforo: «non vorrai tu concedere a Dio un giorno, due giorni, il tempo che vorrà prendere, per far trionfare la giustizia?». 

Non si tratta di una posizione rinunciataria, che sposta in una dimensione ultraterrena un problema storico. Tutt’altro: è il ribaltamento di una logica incentrata sulla rivendicazione dei diritti e dunque sul “cosa dobbiamo fare concretamente”, che sempre si deteriora in una lotta per l’egemonia; è un orizzonte non soltanto più profondo, ma anche più concreto. Lo dimostra un fatto solare: quando fra Cristoforo cerca invano di far ragionare don Rodrigo, la sconfitta che subisce stranamente non lo distrugge: «Il padre Cristoforo arrivava nell’attitudine d’un buon capitano che, perduta, senza sua colpa, una battaglia importante, afflitto ma non scoraggito, sopra pensiero ma non sbalordito, di corsa e non in fuga, si porta dove il bisogno lo chiede».

Com’è possibile non essere sconfitti dentro una sconfitta? Com’è possibile, cioè, rompere l’aut aut del «non resta che far torto, o patirlo»? L’inizio della risposta sta nell’incontro con un uomo concreto che torna «afflitto ma non scoraggito». Combatte, non sottovaluta i problemi concreti, tanto da rimanere «afflitto», ma è indomito. Cammina, in un mondo che va storto e in direzione opposta, da uomo vittorioso. Da dove gli verrà l’energia per correre ancora una volta «dove il bisogno lo chiede»? 

Nello sfacelo del mondo, da dove ripartiamo? Non dal progetto di cambiarlo, che trascina inesorabilmente con sé la rabbia per quello che non va come ce l’abbiamo in testa, ma da quegli uomini già cambiati, che ci inchiodano a una provocazione: ma fra Cristoforo come fa a essere così? 

I Promessi sposi ci offrono un’ipotesi insolita, che non si riduce allo scontro tra vincitori e sconfitti, tra prepotenti e delusi, tra cialtroni e delusi. Qui vibra una prospettiva diversa dall’unica a cui sarei in grado di arrivare, cioè quella di Renzo. «Credi pure, ch’io so mettermi ne’ tuoi panni, ch’io sento quello che passa nel tuo cuore»: fra Cristoforo lo disse a lui come lo dice oggi a me. 

Che occasione, per chi è ferito dalle battaglie che il mondo ci impone di combattere, incontrare, leggendo il romanzo, un’amicizia così tenace e contemporanea! Che non ha lo scopo di calmarmi, non mi chiede con una pacca sulla spalla di smussare gli spigoli, rassegnarmi ed essere più buono. 

Almeno Manzoni non confondiamolo con i cori melensi che invitano a sforzarsi a Natale di essere tutti più buoni. Manzoni non era un imbonitore; era cristiano. Cioè sapeva cosa succede a Natale: «Ecco ci è nato un Pargolo, / ci fu largito un Figlio». Uno che patì torti dalla mangiatoia alla croce, e che pure continua a vincere. Anche se «i popoli / chi nato sia non sanno» e si ostinano ad alzare la voce per conquistare un breve spazio di potere, da duemila anni c’è un uomo in carne e ossa – ci sono uomini in carne e ossa – a testimoniare, dentro la guerra (quasi sempre persa) di questi giorni, quella «pace, che il mondo irride / ma che rapir non può».