È difficile non condividere l’incipit del paragrafo sulla scuola che compare nell’Agenda Monti: “La scuola e l’università sono le chiavi per far ripartire il Paese e renderlo più capace di affrontare le sfide globali”. Per il resto, i principi enunciati più che ad un promemoria per chi si accinge ad operare nel prossimo futuro tendono ad assomigliare ad un quaderno dei dolori e dei pentimenti. Infatti, si confessa che di fronte ad un “elevato tasso di abbandono scolastico” che, aggiungiamo noi, è la vera piaga del sistema scolastico italiano dalla quale non sono indenni neppure le regioni italiane più virtuose e insospettabili, come quelle del Nord-Est, occorre “invertire la rotta”, cioè “prendere l’istruzione sul serio”.
In questo senso, e qui sta il vero coup de théatre, bisognerebbe, dice l’Agenda, “rompere uno schema culturale per cui il valore dello studio e della ricerca e il significato della professione di insegnante sono stati mortificati”. Poi prosegue ammettendo che “gli insegnanti devono essere rimotivati e il loro contributo riconosciuto, investendo sulla qualità”. Si fa dunque riferimento, dal punto di vista programmatico, ad “autonomia e responsabilità” come principi fondanti; al completamento del nuovo sistema di valutazione e ai “meccanismi di incentivazione dei dirigenti scolastici e degli insegnanti” nella forma di premi economici sulla base dei risultati raggiunti.
Non è poco, e la resipiscenza è d’obbligo dopo il disastro culturale combinato di recente da questo governo con il minacciato allungamento a 24 ore (senza aggiunta di stipendio) dell’orario di servizio dei docenti, trattati non proprio con i guanti dallo stesso premier in carica che ebbe di recente a dichiarare che “in alcune sfere del personale della scuola c’è grande conservatorismo e indisponibilità a fare anche due ore in più alla settimana, che avrebbero permesso di aumentare la produttività” (Monti a Che tempo che fa).
Per queste ragioni, il pentimento, un poco tardivo, merita di essere preso in attenta considerazione: proprio per scorgervi ancora notevoli dosi di disattenzione a quanto la scuola e la professione docente hanno manifestato in questi difficili tempi di crisi (culturale dunque economica; educativa dunque progettuale). Certamente “autonomia” e “responsabilità” sono due categorie chiave del processo di innovazione. Purché per autonomia s’intenda la possibilità degli istituti scolastici, come tanti sarebbero già in grado di fare, di avere una configurazione giuridica propria che consenta loro di gestire risorse e assumere personale compatibile con il piano dell’offerta formativa (altrimenti di che cosa stiamo parlando, dato che le scuole godono già di autonomia funzionale, ex Dpr 275/99?).
Purché per responsabilità (temine veramente decisivo) s’intenda la possibilità dei docenti di assumersi dei compiti riconosciuti nei confronti dei loro alunni e del loro ambiente, che derivano dalla cura che hanno della loro professione, che non per tutti si esaurisce al termine delle ore canoniche di servizio. Ma per questi ultimi, che evidentemente sono un soggetto al quale è consono coniugare vocazione alla comunicazione di un significato positivo attraverso ciò che insegnano e professionalità, intesa come emergenza pubblica e sociale della dignità del loro lavoro, sinceramente, l’incentivazione mediante il premio economico è troppo poco e a questo punto fuorviante. Non tanto perché il merito non debba essere affermato, ma perché la forma incentivante resta prigioniera di un appiattimento della figura docente sul modello impiegatizio che è tanto caro ad una certa cultura sindacale, che pure ha dimostrato di recente di essere molto frammentata a questo riguardo.
Insomma, per farla breve, perché, cara Agenda, non osare di più? Perché, dopo avere accennato ad un cambio di passo, non introdurre il tema della valorizzazione della professione docente attraverso una stabilizzazione giuridica autonoma e davvero corrispondente alla responsabilità che tanti insegnanti sono di fatto in grado di testimoniare nelle loro situazioni?
Eppure una certa idea di liberalizzazione della professione docente non è estranea ai programmi con i quali i ministri dell’Istruzione degli ultimi governi (espressione del centrosinistra, del centrodestra o della tecnocrazia riformista) si sono succeduti. Basta pensare al “Libro Bianco” di Fioroni; al piano programmatico della Gelmini allora condiviso anche dall’opposizione; all’atto di indirizzo di Profumo (valorizzazione del merito di docenti, dirigenti scolastici e istituzioni scolastiche). Non è estranea, ma lontana se non si rapporta alla scuola reale, a quella che si costruisce ogni giorno e che produce cultura insieme agli alunni, senza baloccarsi in utopiche ipotesi di spazi aperti (scuola come centro civico) dove gli insegnanti erogano servizi senza né formare né educare.
Dunque l’Agenda Monti è interessante per quella apertura sulla scuola intesa come perno del Paese, insieme all’università. Ancora una volta deludente sul metodo, perché anziché porsi in discontinuità rispetto ad un certa ipoteca sindacale che concede al più qualche beneficio economico a fronte di una maggiore attivazione didattica, ripropone una minestra riscaldata.
Naturalmente i giochi sono aperti, forse anche l’Agenda, e si vedrà se chi è disponibile a farla propria avrà più coraggio e disponibilità a sfidare la visione assistenzialistica (peraltro molto diffusa anche tra gli insegnanti, non si può negarlo) che chiede poco per concedere scarsa credibilità professionale.
E mentre attendiamo che i motori si scaldino, seguiamo con una certa preoccupazione gli sviluppi delle operazioni in cantiere: il Tfa abilitante, il concorso a cattedre, il nuovo reclutamento dei docenti (in questo momento solo allo stato di bozza forse fatalmente arenato).