Un’influenza come tante altre. Prima c’era anche stata anche la malattia dei polli e ci si erano messi persino i cetrioli – o forse no, erano stati i germogli di soia – a far ammalare la gente. Eppure all’improvviso era arrivata una strana stanchezza a prendere possesso della gente, a cambiare i tratti dei volti e dell’anima. “In quell’autobus affollato alle otto del mattino, denso di studenti, come me, di persone che andavano al lavoro, di madri e bambini, nessuno parlava. Sul viso espressioni assenti, mascelle contratte, labbra tese, occhi vacui: sembravano fantocci meccanici a cui qualcuno avesse staccato la spina o tolto le pile”.
È Sara a ricordare. Sara rimasta sola al mondo, in un’isola sperduta, dove il papà l’aveva portata con la famiglia nell’estremo tentativo di scappare dal morbo che stava annientando l’umanità intera. Sara è sopravvissuta e “Sopravvissuta” è appunto il titolo del libro che narra la sua vicenda, per le Edizioni San Paolo. Fulvia degl’Innocenti, la sensibile e acuta scrittrice per ragazzi con all’attivo decine di libri loro dedicati, ci ha preparato un romanzo che scorre bene e ci introduce in un mondo azzerato, ma privo di disperazione. Pienamente inserita nel genere distopico la storia respira tuttavia della speranza in una positività ultima che la scrittrice non nasconde.
Sara, unica sopravvissuta nell’isola deserta, assieme a Buck, un fedele pastore tedesco a farle compagnia, non si perde d’animo. Ha diciassette anni e ha imparato come cavarsela: sa pescare orate guizzanti, allestisce falò per cucinarsi il pesce, alleva le galline che le regalano uova fresche. C’è ovviamente tanto spazio per i ricordi, quelli belli come quelli dolorosi, che portano sulla soglia dello scoraggiamento. Ma soprattutto la ragazza non molla su un punto: se c’è qualcun altro al mondo lei deve raggiungerlo, come può. Ecco allora affidare la richiesta d’aiuto, le sue speranze, i suoi desideri a messaggi in bottiglia, lanciati in mezzo al mare perché la corrente li trasporti in cerca di altri uomini.
“Mi manca qualcuno con cui parlare, mi mancate voi, mi manca l’umanità intera. Prima, nell’altro mondo, il mio cellulare friggeva di trilli tutto il giorno, e sapevo che c’era sempre un amico che in quel momento mi pensava. Però sto imparando a cucinare, e se pensassi che ha un senso immaginare il futuro, direi che vorrei fare la cuoca. Ecco, vi ho detto qualcosa di me. Il resto sono sicura che lo sapete, e non avete voglia di sentirvelo raccontare come io non ho voglia di raccontarlo. Vi prego, venite a cercarmi. Vi aspetto”.
Sara sa, e ci dice, che nessuno si basta da solo, che per star bene è necessario tenere sempre aperto il posto dell’altro. Tra i romanzi cui l’autrice si dichiara debitrice troviamo Robison Crusoe, L’isola Misteriosa, Vacanza all’isola dei gabbiani e La strada. A me invece, leggendo, è subito venuto in mente il film Cast Away, in cui un Tom Hanks naufrago si tiene compagnia con Wilson, un pallone da pallavolo su cui viene dipinta una faccia, per non impazzire.
Le lettere in bottiglia di Sara hanno un po’ lo stesso sapore e valore. Si potrebbe pensare che si tratti di un altro allucinato, un fantasma, un delirio. Ma no! È una soluzione, è il modo per conservare un posto libero, perché chiunque arrivi in grado di occuparlo ci si possa accomodare, e si senta a suo agio come su una poltrona comoda e morbida. Sara, dentro una situazione che porterebbe molti alla follia, si conserva sana nel suo pensiero proprio in virtù di questo tenere viva la presenza di altri, anche nel ricordo. Sono gli altri amorevoli che non ci sono più − come mamma, papà e i fratelli o gli amici − oppure quelli di cui non si sa più nulla, ma per cui si spera ancora, come Andrea il suo tenero amore, oppure quelli sconosciuti di là dal mare che, certo, prima o poi la troveranno.
Sara, sola, non è mai sola, non si concepisce tale.
Il finale, assieme all’epilogo, ridà respiro a tutto. Perché in questo romanzo, che avrebbe potuto essere cupo e buio e desolatamente grigio, non si soffoca, ma stranamente si respira un’aria incontaminata dal virus della rassegnazione e della disperazione. Un’aria che apre a un futuro, pensato, prima ancora che sperimentato, come possibile.