Un certo rilievo mediatico hanno suscitato i dati Almadiploma presentati al Miur il 30 novembre scorso. I dati, che tracciano il profilo delle performance di studio e delle valutazioni dell’esperienza scolastica di quasi 38mila diplomati 2012, fanno riverberare sulle maggiori testate giornalistiche i temi della crisi, della mancanza di adeguato orientamento scolastico e professionale, della ricerca emergente del posto di lavoro “tutto e subito”.
In realtà, come sempre accade, la raccolta dei dati è determinata dal campo di indagine scelto dal ricercatore. Essi possono essere letti secondo direttrici di senso differenti e, soprattutto, vanno incrociati tra loro. Mi spiego meglio: cosa significa l’apparente e sconcertante dato che il 42% dei diplomati, se potesse tornare al momento dell’iscrizione, cambierebbe la sua scelta? Siamo proprio sicuri che questo dato sia frutto di una carenza orientativa?
Probabilmente sì, ma non necessariamente nel senso comune (o di razionalità tecnica) dell’accezione del termine orientamento. Innanzitutto, di questo 42% in realtà soltanto il 24% cambierebbe sia scuola che indirizzo, ovvero ritiene di aver proprio sbagliato. Un dato non sconcertante, soprattutto se si nota che esso deriva per la maggior parte dalle risposte di coloro che si dichiarano meno motivati allo studio e meno impegnati con esso. I miei vecchi dicevano che del senno di poi sono piene le fosse, e, senza voler banalizzare una questione che, va da sé, è della massima importanza perché riguarda il futuro dei nostri giovani e del nostro Paese, questo sta a significare che innanzitutto è necessario essere realisti. Quanti di noi (ciascuno si guardi allo specchio e ripercorra il suo percorso) sta svolgendo esattamente la professione che immaginava per sé a quattordici anni, o che corrisponde esattamente al suo percorso di studi? E per quanti di noi questo è certamente fonte di infelicità e insoddisfazione?
La realtà è molto più ricca, sorprendente, complessa di quanto stia nei nostri progetti; la realtà parla il linguaggio del desiderio e della corrispondenza profondi, e non del match (o mismatch) immediato. E ancora: quanti di noi hanno iniziato subito il proprio percorso lavorativo con una situazione lineare, stabile, pienamente soddisfacente? E’ il profumo dell’arrosto che sollecita l’appetito!
E’ mettere le mani in pasta che fa nascere il desiderio di andare più a fondo e più in là rispetto a ciò con cui ci si impatta, ed la realtà con cui ci si impatta (fare la baby-sitter, distribuire i volantini, vendemmiare, correggere bozze, servire al bar, dare ripetizioni al vicino di casa, animare il centro estivo, svolgere mansioni di facchinaggio…) che permette di mettere in gioco le competenze della persona, facendole scoprire cosa è fatto per lei e per cosa essa è fatta.
Allora il problema dell’orientamento c’è, eccome, ma non è ascrivibile tanto o solo allo sviluppo di competenze orientate alla scelta, quanto alla maturazione di una coscienza situata di sé che sappia leggere la realtà, la propria collocazione e gli spazi di incidenza creativa ed efficace che ciascuno di noi può esercitare in essa.
Si parla tanto di talenti e vocazioni, e ben vengano laddove emergono (per inciso, ricordiamo che tale emersione non è necessariamente un sorgere spontaneo, ma richiede cura, attenzione e sguardo lungimirante da parte degli adulti educatori che accompagnano il percorso di crescita); ma laddove essi non si palesano? Quanti vostri conoscenti, e magari voi stessi, parlando dei figli quattordicenni affermano che francamente non sanno quale percorso vogliano intraprendere? Cosa fare, allora?
La responsabilità della scuola in questa prospettiva è grande, ma va esercitata di concerto con la famiglia, e va supportata con strumenti adeguati perché lifelong, ciascun bambino, fanciullo, giovane, possa prendere le misure della realtà e di sé nella realtà. A partire dalla scuola dell’infanzia, secondo le dimensioni della conoscenza di sé, dell’ambiente e di ciò che ci circonda, per arrivare ad una vera e propria didattica orientativa nel progredire della scolarità.
Come? Facendo ciò che è nella natura stessa della scuola promuovere, ovvero esperendo, riflettendo sull’esperienza, apprendendo con umiltà, impegno, un po’ di frustrazione (non nascondiamocelo), guidando e lasciandosi guidare. Ma anche fornendo informazioni pertinenti e non sovrabbondanti o fuorvianti (in quante scuole secondarie di primo grado si riflette con i genitori sui dati, ad esempio, forniti da Excelsior? Quante scuole secondarie di secondo grado sanno comunicare ai ragazzi il proprium e il core curriculum del percorso che propongono?), incontrando mestieri e chi li pratica, conoscendo il mondo grande e piccolo, vicino e lontano da sé.
Perché libertà, ragione e responsabilità si educano solo mettendosi in gioco, e maturando competenze che ci consentano di giudicare l’esperienza per trovare soddisfazione e sperimentare una riuscita non soltanto nel fare il calciatore o l’astronauta, ma anche in un lavoro semplice, utile, dignitoso, ben fatto, con la cura dell’artigiano. Perché è nel lavoro che la dignità dell’uomo si manifesta, è nel lavoro che il rapporto dell’uomo con la realtà si riempie di un gusto creativo e costruttivo che trasforma il mondo.
Allora, se i dati Almadiploma ci testimoniano che, complessivamente, i ragazzi sono contenti dei professori che hanno incontrato, se questi uomini e donne li hanno accompagnati e aiutati (che bella parola, sempre meno utilizzata) a diventare a loro volta uomini e donne, e se solo il 24 del 42% di coloro che potendo tornare indietro (ma ha senso questa domanda?) cambierebbero percorso lo farebbe per compiere studi più orientati al mondo del lavoro, questo significa che comunque la scuola ha ancora un suo perché, quello di sviluppare una capacità di critica della quale non si butta via niente, e tutto è per un bene. Sia che lo faccia con gli strumenti della teoretica che della ragion pratica, dell’intelletto della mente che dell’intelligenza delle mani. Non nonostante la crisi, ma anche attraverso la crisi.