Caro direttore,

speravo che qualcuno al Miur accogliesse il grido di dolore lanciato su queste pagine da Claudio Cereda qualche settimana fa, ma il silenzio continua a regnare su questa incredibile vicenda del regolamento fantasma dei Centri provinciali per l’istruzione degli adulti (CPIA) che continua a lasciare nel più completo disorientamento i CTP ma soprattutto i corsi serali degli istituti del secondo ciclo.



Il problema è molto semplice: secondo una improvvida circolare del settembre 2011, la chiusura di tutti i corsi sperimentali colpisce anche quelli di tipo “Sirio” (nei tecnici) e “Aliforti” ( nei professionali) e dovrebbe implicare il passaggio a 32 ore di tutti i corsi serali. Peccato che però quasi mai gli Uffici scolastici territoriali concedono l’organico necessario a coprire tutto il tempo scuola teoricamente obbligatorio: un po’ perché, dovendo stringere la cinghia, è più facile farlo su una utenza instabile nella frequenza e ritardataria rispetto ai tempi ufficiali delle iscrizioni; un po’ perché sanno che le scuole “si arrangiano”, cioè riconoscono comunque come crediti formativi utili all’accorciamento dei percorsi  alcune competenze proprie della condizione adulta ( in genere, almeno educazione fisica e religione, ma non solo). Nei casi migliori, ciò avviene sulla base del DM 86/2004, in altri su altre prassi meno formalizzate.



Si tratta comunque di una situazione incerta, basata su sperimentazioni didattiche generose ma inevitabilmente approssimative e comunque con basi normative piuttosto fragili. Tutto ciò “nelle more dell’approvazione del Regolamento dei CPIA”, che dovrebbe riconoscere una dirigenza autonoma a ciascuna istituzione frequentata dagli adulti.  Ma è ancora il caso di attendere Godot o non sarebbe piuttosto il caso di affrontare le questioni relative all’educazione degli adulti da un altro punto di vista?

Quando il ministro Fioroni, nell’ottobre del 2007, emanò il decreto istitutivo dei Centri provinciali, la previsione era che si sarebbero formate istituzioni autonome consistenti – come tutte le altre – di almeno 500 iscritti, compresi gli studenti iscritti ai corsi di alfabetizzazione linguistica: per la Lombardia, avrebbe significato un numero di CPIA almeno pari a quello degli attuali Centri territoriali, con un significativo incremento delle dirigenze. Anche se non erano chiari i termini del rapporto con i trienni degli istituti tecnici e professionali, che almeno in una prima fase non sarebbero stati inglobati, non era un lusso ingiustificato, poiché il lavoro di ogni CPIA si preannunciava assai complicato:  sarebbe stato necessario costruire una serie di convenzioni con i Comuni e con ogni sede di istituto serale per garantire la necessaria diffusione delle sedi e, soprattutto, si annunciava molto impegnativo lo sviluppo organico dell’innovazione didattica.



Malgrado gli innegabili problemi, tuttavia, sembrava un importante riconoscimento della specificità dell’istruzione degli adulti e un primo passo verso un rilancio del settore: una dirigenza specifica; una didattica fondata sulla modularità e sulle certificazioni parziali, un calendario scolastico su misura con attività anche estive, forse anche nuovi criteri di assunzione. In effetti, in questa prospettiva hanno lavorato molti Uffici scolastici regionali, tra cui sicuramente quelli del Piemonte e della Lombardia, che vi vedevano il positivo sviluppo delle intuizioni dell’OM 455/1997: quella che fu chiamata in slogan la “citipizzazione” della scuola serale, ossia finalmente la generalizzazione della flessibilità dei percorsi, positiva caratteristica dei CTP.

Si sa che le cose non sono andate così. A causa delle esigenze di bilancio, il numero degli studenti necessario per l’istituzione delle istituzioni autonome è continuamente cresciuto: non gli iscritti, in primo luogo, ma gli scrutinati ( e questo è sensato); non gli adulti certificati dei corsi di italiano per stranieri, ma solo quelli che li frequentano come segmento del corso per il conseguimento del titolo di studio ( e questo è assai meno sensato); nessun incremento delle dirigenze a livello provinciale. Inoltre, non è mai stato chiarito definitivamente se nei CPIA dovessero frequentare anche gli studenti del triennio e a quali insegnanti dovesse essere affidato il compito di garantire il conseguimento delle competenze previste nelle discipline dell’area di base (quelli dei bienni serali o quelli dei CTP?), e con quali rapporti con gli insegnanti delle diverse aree di indirizzo.

La serie infinita di ritardi, marce indietro, incertezze, che ha incontrato l’approvazione del Regolamento sta secondo me in questo conflitto tra il mantenimento dell’impostazione originaria, cioè di fatto un aumento delle dirigenze ( improponibile oggi per evidenti ragioni di bilancio) e la difficoltà – al limite dell’impossibilità – di gestione delle dimensioni previste nelle versioni successive: una miriade di sedi e di interlocutori, oltre tutto in assenza di uno staff di collaboratori.

Ma se questa scelta di non scegliere può essere stata comprensibile fino ad ora, l’entrata in vigore nelle classi terze del riordino impone risposte chiare ed immediate. E allora, perché non bypassare – almeno per ora – la questione organizzativa delle dirigenze specifiche, puntando invece su alcune questioni ordinamentali che sembrano più che mature nella pratica delle migliori scuole?

In sostanza, si potrebbe benissimo non toccare la struttura attuale che lascia ai CTP il compito di preparare gli adulti all’esame di licenza media, di provvedere all’alfabetizzazione linguistica e, con risorse proprie, di organizzare i corsi brevi richiesti dal territorio ( che ci sono e sono tanti); al biennio delle superiori quello di consolidare le competenze dell’area di base anche attraverso la necessaria integrazione con l’area di indirizzo; al triennio quello di assicurare le competenze del profilo professionale. Agli istituti professionali la possibilità di innestare nei loro percorsi quelli delle qualifiche a titolarità regionale previsti dagli organici raccordi tra istruzione e formazione regionale.

Tutto resterebbe dunque come ora su questo piano (salvo le modifiche legate al dimensionamento generale), ma con alcune fondamentali innovazioni che potrebbero consentire di versare vino davvero nuovo nelle botti vecchie, che sono peraltro in parte già previste nelle bozze di Regolamento finora circolate.

1. La prima riguarda la questione fondamentale della flessibilità. Bisogna prendere finalmente atto che, se appare opportuno personalizzare i percorsi formativi dei giovani, si tratta di un’impellente necessità per gli adulti, che hanno alle spalle esperienze professionali e umane, nonché una disponibilità all’utilizzo della formazione a distanza, del tutto differenti. Per questo non ha senso una scansione dell’insegnamento per discipline e per anni scolastici e la richiesta di moduli più brevi, che non deve essere confusa con una generica rivendicazione di ”accorciamento” del tempo scuola: non si tratta infatti di generalizzare le pur generose esperienze dei “monoenni” sperimentali, ma di prendere atto che ogni adulto ha tempi diversi di apprendimento, sia in relazione alle competenze pregresse, sia in relazione alla diversità dei  tempi disponibili per lo studio.

Quel che occorre, insomma, è una didattica per competenze che preveda certificazioni parziali. Può darsi che un adulto le consegua in tempi più brevi di quelli occorrenti all’utenza diurna, ma può anche essere che a volte i ritmi di apprendimento siano più lenti. Per esempio, è perfettamente possibile che un iscritto al corso per il conseguimento della licenza media possa frequentare uno o più moduli anche estivi per l’allineamento con una certa area di indirizzo; ma è anche possibile che un altro – spesso uno straniero del tutto non parlante italiano – abbia bisogno di più tempo per conseguire la licenza media o per ottenere una certificazione linguistica. A maggior ragione lo stesso può avvenire nel triennio.

È ovvio che ogni tipo di flessibilità ha bisogno di un punto di riferimento medio, che può benissimo essere costituito dai limiti orari “normali” cui accenna Cereda nel suo intervento, pari al 70% dell’orario del diurno.

2. Per dare stabilità a questo percorso flessibile è necessario definire modelli di certificazione riconosciuti e validi su tutto il territorio nazionale, integrando quelli previsti dal DM 86 e dall’OM 87/2004. A questo si doveva lavorare ( e in parte lo si è fatto) in questi anni, anche da parte del Miur, ma adesso la pubblicazione delle Linee guida dall’istruzione tecnica e professionale costituisce un più solido punto di riferimento normativo.

3. Con quale organico si fa questo lavoro? È ovvio che solo un organico realmente “funzionale” può essere utile a questo scopo. Significa che possiamo anche tenere per buoni i parametri numerici previsti dal Regolamento basandoli oggi sulla serie storica degli “scrutinati”, domani del numero delle certificazioni rilasciate al termine di percorsi. Ma essi stanno in piedi solo a condizione che sia lasciata alle scuole completa autonomia circa la richiesta qualitativa (le classi di concorso!) delle risorse necessarie per l’insegnamento nei moduli e per loro distribuzione nel corso dell’anno scolastico. Ciò comporta ovviamente un impegnativo confronto con il sindacato per la costruzione di uno specifico stato giuridico del docente dell’istruzione degli adulti: ma sarebbe tempo tutt’altro che perso, anche perché un’operazione di questo tipo è indispensabile non solo nelle scuole serali ma anche per un’applicazione efficace delle linee di  riordino del secondo ciclo in generale. So benissimo che esiste una resistenza fortissima del ministero dell’Economia a sentir anche solo parlare di “organico funzionale”, identificato tout court con “più organico” tanto è vero che il  ministro Profumo ha dovuto fare precipitosamente marcia indietro sull’idea di assegnare nel decreto sulle liberalizzazioni un sia pur piccolo contingente aggiuntivo a livello provinciale. Si potrebbe però forse superare il pregiudizio se partissimo dal presupposto rassicurante (per il Mef) che comunque il contingente nazionale che lo stato assegna alle Regioni dovrebbe rimanere comunque invariato. 

4. Parlare di “organico funzionale” in questo modo significa ovviamente porre il problema di chi lo propone e di chi ne è responsabile, cioè significa parlare di governance. Io penso che questa responsabilità non possa non toccare al Dirigente, con il supporto di una commissione composta da docenti con specifici requisiti di esperienza nei corsi per adulti e con il concorso del Comitato tecnico scientifico. Potrebbe costituire un importante anticipo di quel che domani dovrebbe avvenire anche nelle scuole normali.

5. Questo stesso organismo potrebbe un domani anche avere il compito di assumere, sulla base di un pubblico concorso, il personale disponibile ad accettare le nuove regole dell’istruzione degli adulti. Ovviamente anche la scelta del dirigente delle scuole con Ctp o corsi serali dovrebbe avvenire all’interno di coloro che ne abbiano fatto esplicita richiesta.

È una proposta velleitaria ? Credo non meno di quella che, creando un legame inscindibile tra specificità dell’istruzione degli adulti  e creazione di autonomie specializzate, viene a creare una situazione di perenne precarietà che pagano  prima di tutto gli utenti. Questo non vuol dire che il piano regionale di dimensionamento dell’offerta formativa non debba considerare attentamente i casi in cui è possibile senza particolari problemi accorpare le sezioni serali di più istituti: nelle grandi città questo è sicuramente possibile da subito e certamente ciò favorirebbe lo sviluppo di una dirigenza esperta. Ma il rilancio dell’istruzione degli adulti, e dell’Eda più in generale, non passa a mio avviso prioritariamente da qui, bensì dalla volontà di tutti i soggetti, Amministrazione e sindacati in primo luogo, di assicurare un ordinamento didattico davvero diverso da quello della scuola del mattino, che peraltro si potrà avvalere – come spesso è accaduto in passato – delle più felici esperienze innovative della scuola degli adulti.