Caro direttore,

di fronte all’innegabilità della crisi attuale e alla crisi della scuola, il recente articolo di Giorgio Vittadini offre spunti critici che mi sembra utile evidenziare. Ne metterò in evidenza solo alcuni attingendo soprattutto alla mia esperienza di docente e dal lavoro che stiamo facendo con alcuni colleghi.



Un primo punto originale di lettura della realtà è il collegamento fatto tra la crisi economica e la crisi della scuola. La crisi in quanto tale offre un ripensamento della rotta intrapresa in questi ultimi tempi dalla scuola. Pertanto, se la crisi è occasione di ripensamento, ci troviamo di fronte ad una opportunità per la scuola e per riflesso per la stessa società. Sono riportati alcuni errori che hanno condotto alla situazione attuale. Ne considererò alcuni su cui farò qualche riflessione.



Un primo errore è considerare l’impegno economico dello Stato nei confronti della scuola come una spesa e non come un investimento in capitale umano. Il riannodare l’investimento in qualità nella scuola può risultare vincente per una scuola che torni fare il suo mestiere e per la nazione che può contare sulla scuola per la crescita economica. Questa posizione attacca quell’autoreferenzialità della scuola che le fa mordere la coda e non la fa aprire al territorio. L’origine di questa autoreferenzialità della scuola è generata da una certa autoreferenzialità dei docenti, anche se ci sono lodevoli eccezioni. Si nota una chiusura dei docenti sia quando chiudono la porta dell’aula, sia quando – nei consigli di classe – non si agganciano ad un tentativo di unità del sapere senza ledere il contributo personale e decisivo di ogni insegnante e di ogni materia.



Un secondo errore che sottolineerei è il considerare la scuola un ammortizzatore sociale: la spesa per la scuola c’è ma non per migliorarne la qualità bensì per dare posti di lavoro, sacrificando così il compito della scuola, che è quello educativo, al bisogno del lavoro. Con questo non voglio dire che lo Stato non debba occuparsi della questione del lavoro ma che non può essere la scuola la soluzione: si devono cercare altre strade, casomai non strade stataliste dove lo Stato fa l’imprenditore, ma sussidiarie dove lo Stato crea le condizioni affinché la libertà del singolo sia posto nelle condizioni di potersi esprimere anche nell’ambito lavorativo. Questo libererebbe la scuola da questo abbraccio che la soffoca. La scuola utilizzata come scorciatoia per risolvere il problema del lavoro ha contribuito ad abbassarne la qualità soprattutto a livello di insegnanti che non sono sufficientemente motivati all’insegnamento, con una conseguente demotivazione negli stessi alunni.

Un esempio storico positivo che ha prodotto crescita economica attraverso la qualità dell’insegnamento è ricondotto agli anni sessanta, quando gli istituti tecnici e professionali mantenevano le sorti dell’industria italiana, e i licei insistevano su una conoscenza “per avvenimento” determinando un fattore di crescita creativa della fascia alta del nostro Paese. 

Oggi si avverte una riduzione di creatività: nei licei si ha difficoltà a rendere concreto l’insegnamento perché l’apprendimento è legato ad un concetto di conoscenza che vede l’alunno piegato all’addestramento e alle nozioni, pur necessarie, ma senza aprire ad un orizzonte più ampio; mentre negli istituti tecnici e professionali si ha una analoga difficoltà perché le materie teoriche non vengono insegnate in modo concreto. Concreto, si badi, e non pratico. Questo crea una frattura tra il teorico e il pratico che deve essere sanata per migliorare l’insegnamento e l’apprendimento, perché il teorico in tanto è valido, in quanto permette un giudizio sul pratico, e il pratico senza il giudizio del teorico non si capisce a che cosa serva.

Tutto questo ci dice che la crisi economica non è una questione puramente di conti che non tornano ma è più vasta, tocca l’umano. Non ci si può adagiare sul fatto che i governi mettono i conti a posto (e questo devono assolutamente farlo), in modo che col pareggio la crisi sia archiviata. La crisi è culturale, dice Vittadini, per cui la crisi economica è un aspetto della crisi. Se gli esperti di economia non tengono presente il fattore umano implicato nella crisi, le soluzioni non saranno di lunga durata.

Ora,un luogo privilegiato dentro cui è possibile questo riaggancio dell’economia all’uomo è la scuola. Questo è quanto Vittadini afferma quando dice che l’Italia è stata capace di tirare fuori un “personaggio”, diciamo così, strano. Strano perché normalmente si pensa che una persona, un gruppo sociale o una nazione è “forte” quando si hanno materie prime, forza politica, unità di intenti di tutto il popolo, ecc. Mentre la stranezza del caso italiano è che pur in mancanza di tutto questo, non mancava la parte migliore: il capitale umano. Gli italiani hanno puntato su questo, hanno scoperto di essere capaci di poter educare un tipo umano sui generis che ha significato, storicamente, sviluppo a tutti i livelli.

Entrando più decisamente nel vissuto di una classe, Vittadini stigmatizza quelle lezioni noiosissime che a volte sappiamo essere presenti tra le pareti delle nostre scuole. Sulla base della mia esperienza, condivisa anche dai miei colleghi, ritengo importante il passaggio dalla distrazione all’attrazione. Buona parte della struttura della lezione è innervata proprio sulla capacità dell’insegnante di attrarre. Non mi voglio dilungare su questo, ma è evidente che nasciamo con doti diverse fino al punto che alcuni hanno grandi capacità istrioniche. Credo che il compito dell’insegnante non sia quello di fare della scuola un “teatro” per rendere la lezione più “sexy”, ma quello di imparare ad utilizzare tutti gli strumenti per renderla affascinante. Sono due cose diverse. La condizione imprescindibile è la scoperta da parte dell’insegnante della cosa che più attira e che più rende concreto l’insegnamento: l’essere. Sì! L’“essere” sembra la cosa più astratta di tutte, invece è ciò che indica le cose nella loro presenza. Si può dire anche in un altro modo: ciò che rende affascinante la lezione è mettere gli alunni in contatto con la realtà, che è ciò che più attira l’uomo come tale. 

Ecco la proposta concreta di Vittadini. Da cosa ripartire per “cotonare i capelli dieci volte meglio”? Da una gara di poesia. Da cosa ripartire per insegnare meglio e facilitare l’apprendimento? Da tutto ciò che aiuta a dare gusto. Allora il problema dell’insegnante è lo stesso problema dell’alunno: come si sta di fronte alle cose. Un aggiornamento strutturato degli insegnanti che ha come fine, tra gli altri, proprio quello di ridare gusto all’insegnamento è l’esperienza che con alcuni colleghi stiamo facendo delle Botteghe dell’insegnare organizzate dall’associazione professionale Diesse. La proposta di Vittadini di imparare a guardare dove guarda la Divina Commedia per cotonare dieci volte meglio i capelli la trovo analoga alla proposta delle Botteghe, dove seguendo l’ipotesi suggerita e messa in pratica da un maestro “di bottega” impariamo ad insegnare meglio. E ho modo di toccare con mano – insieme alla decina di colleghi che condividono con me questa esperienza – la ricaduta del metodo suggerito da Vittadini: cambiando noi, cambia anche il modo degli alunni di studiare italiano, latino, matematica.