GERUSALEMME – Lo chiamano “price tag”, il prezzo da pagare. È quello reclamato dal volto più radicale della società israeliana, o meglio del mondo delle comunità dei settlements, le colonie, comunità di israeliani che vivono nei territori della Cisgiordania occupati durante la guerra del ’67, che si ribellano con vandalismi e minacce contro qualunque tentativo di porre un freno agli insediamenti illegali.



A raccontare la frangia più estrema dei settlers è la cronaca. In poche settimane, a partire dallo scorso dicembre, cinque moschee sono state oggetto di vandalismi, imbrattate di insulti per Maometto e i suoi seguaci e di minacce: “L’unico arabo buono è l’arabo morto”. A Gerusalemme un luogo di culto musulmano è stato dato alle fiamme, stessa sorte era capitata a un’altra moschea in ottobre, quando graffiti razzisti contro gli arabi erano comparsi in due cimiteri di Jaffa, uno musulmano, uno cristiano. I cristiani non sono esenti dalle provocazioni degli estremisti, settimana scorsa a diventare bersaglio di scritte ingiuriose è stato il Monastero ortodosso della Santa Croce, a Gerusalemme. Ultimo episodio in ordine di tempo riguarda “Hand in hand”, un istituto scolastico in cui ebrei e arabi studiano e insegnano insieme e la cui colpa sarebbe quella di raccontare ai propri ragazzi la “Nakba” (catastrofe), il punto di vista palestinese sulla perdita di terra e case seguita alla proclamazione dello Stato di Israele nel 1948.



Secondo l’Ufficio per il coordinamento degli affari internazionali delle Nazioni Unite, nel 2011 gli attacchi dei coloni nella West Bank contro i palestinesi sono cresciuti del 50 per cento rispetto all’anno precedente.

Una serie di eventi che ovviamente non esaurisce il quadro di una società complessa, fatta di moltissime voci che dissentono e condannano. Fatta anche di voci che vedono in questo estremismo l’espressione di un problema che è molto meno circoscritto e che ha le radici nell’incapacità di accettare l’arabo, il palestinese, l’altro.

“Siamo un paese che vive nella paura, soffriamo di un timore cronico. Come si può pensare di sedersi a negoziare la pace quando non riusciamo a guardare il nostro vicino come una persona che ha la nostra stessa inquietudine  e il nostro stesso desiderio?”. Meir Margalit è un ebreo di origine argentina, da anni vive in Israele e oggi è Consigliere della Municipalità di Gerusalemme. È un altro volto di un mondo in cui un atteggiamento diffuso – da entrambe le parti – è quello di dare spazio solo al negativo, ma in cui si trovano anche le voci e le azioni di chi, partendo dal piccolo, vive la dimensione dell’incontro e dell’apertura. La realtà di alcune scuole racconta, per esempio, che la spinta più forte a eliminare il sospetto dallo sguardo viene proprio dall’esigenza di dare risposte quotidiane.



A Gerusalemme est, nella zona araba della città, una piccola comunità di suore gestisce una scuola materna in cui i bambini vengono per la gran parte da famiglie musulmane. “Non è strano per noi portarli in una scuola cristiana – spiegano diverse mamme. Sappiamo che in questo posto stanno bene, sono al sicuro, imparano e sono felici. Questo è quello che desideriamo per i nostri figli, che ogni mamma desidera per suo figlio”.

“La scuola, in questo, può dettare un metodo. Le divisioni e le paure non si superano parlando astrattamente di pace e di convivenza ma riunendo le persone attorno agli interessi comuni e a ciò che sta loro a cuore”. Avsi, ong italiana, in Israele e Palestina lavora a stretto contatto con la realtà delle scuole. “In molti dei progetti che proponiamo – racconta il responsabile dell’ufficio di Gerusalemme, Alberto Repossi – lavoriamo per esempio sul metodo di insegnamento delle diverse materie, rispondendo a esigenze davvero concrete e che vanno al di là dell’etnia o della religione. È lo stesso principio secondo il quale lavoriamo su altri temi, come l’ambiente. Non si parte dal concetto astratto ma dall’evidenza che si tratta del luogo in cui vivi, in cui ti muovi e scopri di più te stesso ed è per questo che vale la pena averne cura”.

Lo stesso principio, ancora, secondo il quale agli insegnanti vengono offerti corsi sul lavoro in team – l’istituto gestito dalla Custodia di Terra Santa a Betlemme ne sta portando avanti uno – in cui si impara a lavorare insieme accettando la correzione e la critica, nell’ottica di un’esigenza educativa prima che tecnica. “Non si tratta di voler arrivare a creare la convivenza o la pace, sono passi successivi e non possono essere il metodo da cui partire. Partiamo dalla persona e dal suo bisogno concreto e da un’idea educativa, che si trova nelle scuole cristiane di Terra Santa, fondata sulla disponibilità verso l’altro e sulla valorizzazione delle scintille di positivo”.