Riflettendo su alcuni recenti articoli (tra i quali quello di Giorgio Vittadini) che hanno riproposto ancora una volta con forza il significato di essere “maestro”, era rimbalzata in rete la curiosa notizia del premio di 250mila dollari assegnato da una fondazione al “più bravo insegnante d’America”.
Mi aveva colpito che si trattasse di un chimico, il prof. Brian P. Coppola, dell’università del Michigan. Il suo nome, facilmente riconoscibile, ricorre spesso nella letteratura scientifica didattica, ma ammetto di non avergli mai prestato attenzione. Sia pure senza speranza di pareggiarne gli esiti, ho cercato di documentarmi studiando alcune delle sue pubblicazioni: da cui ho visto continuamente uscire proprio la figura del maestro. Maestro che sa costruire intorno a sé una scuola (scolarship) di saperi ed esperienze, utilizzando gli stessi consolidati metodi che permettono di dare forma, tradizioni e futuro ad un efficace team di ricerca scientifica e tecnologica.
Tale scuola, recuperando quanto opportuno da tradizioni secolari e reinterpretandolo alla luce di tutte le esperienze dell’oggi, incluso il management delle grandi aziende, coinvolge ed addestra chi ne fa parte a sviluppare le sue capacità di insegnante, nello stesso modo in cui un giovane ricercatore percorre i vari gradini che lo portano da matricola a luminare. Certo, il contesto in cui opera e a cui si riferisce è palesemente troppo diverso dal nostro per poter fare dei paragoni immediati. Difficile pensare ad un meccanismo in cui una facoltà può decidere di investire anni di lavoro e risorse a cinque o sei zeri per progetti di questo genere, se i meccanismi di reclutamento e di selezione all’interno del nostro mondo accademico sono quello che sono, i fondi pure, e per carità non pensiamo a quel che esiste nell’ambito delle scuole superiori.
Eppure la sfida c’è, ed è chiara. Perché l’esistenza di un maestro presuppone degli allievi. Il maestro è colui che sente come proprio compito quello di fare in modo che gli allievi vadano più in là, più in alto di lui. Ma al tempo stesso capisce che non può contentarsi di qualche fortunato e magico incontro, che forse i numi gli concederanno una sola volta, con un allievo dalla personalità così marcata da permettere un’osmosi diretta e spontanea. Deve saper costruire intorno a sé, intenzionalmente, una rete di collegamenti in cui ognuno possa avere la possibilità di crescere, trascinare altri dietro di sé, trasmettere alle future “generazioni” conoscenze, metodi e valori. Che, a loro volta, non possono e non devono restare statici: ma evolversi come naturalmente si evolve il quadro delle conoscenze e dei metodi nel divenire del progresso scientifico.
C’è un luogo comune per cui è un allievo che crea il proprio maestro, nel senso che solo dai frutti che porta l’albero apprezziamo la qualità del seme: quanti si ricorderebbero di Woody Guthrie se il giovane Dylan non l’avesse indicato come suo esempio? Qui però non si tratta di metafore, ma di uno scopo perseguito con metodo e professionalità.
Senza entrare nei molti dettagli del suo lavoro, fra i punti cardinali di Coppola c’è quello di ritenere le scienze (la chimica, ma non solo) come genuine liberal arts (vogliamo renderlo con “discipline umanistiche”?). Spezzando le barriere per cui ogni specialista è felice di non guardare al di fuori della propria specialità.
Anche qui, vien da dire che il contesto fa molto. Un conto è dialogare con Roald Hoffmann, il Nobel massimo sostenitore dell’integrazione fra le scienze e tutte le altre forme della cultura, o con Bassam Shakashiri, che è sia un insigne cattedratico, sia il presidente della titanica American Chemical Society, sia il popolare clown che allestisce con successo gli spettacoli di divulgazione “Science is fun”; o con altri personaggi meno noti ma non meno validi, a cui il “contesto” dà la possibilità di formare intorno a sé le migliori squadre di giovani, e pretende dei risultati.
Altro conto è sapere che in sala insegnanti oggi hai visto solo Giovanni Precario, Totuccio Opelegis e Sconsolata Pensionanda: ognuno dei quali ha qualche plausibile ragione, per non avere in cima ai suoi pensieri il modo in cui si possono Coniugare le Diverse Culture in Vista di Qualche Grande Progetto. Ma qui torniamo al discorso di Vittadini: la necessità di investire, secondo diverse linee di azione complementari, nella scelta, formazione e valorizzazione del capitale umano. Se è vero che far peggio che da noi è quasi impossibile e che tutti sentono l’urgenza di cambiare, credo sia importante guardare con serietà e consapevolezza ad esperienze che altrove si rivelano vincenti. Non per fotocopiarle, ma per capirne lo spirito.
Dice ancora Coppola (banale, ma forse no): il maestro dev’essere pronto a saper imparare dagli allievi, in primo luogo a capire quelli che non capiscono le sue spiegazioni. Anche quello che preferirebbe ripeterti un formulario imparato a memoria e portare a casa un voto, piuttosto che sorbirsi ad ogni lezione richiami alla storia, alla filosofia, alla finalità del proprio lavoro di aspirante professionista. Ma anche quello che non sa più risolvere un esercizio che era elementare per i suoi predecessori, perché nel frattempo gli è stata insegnata qualche forma di “nuova matematica” che ha mozzato le sue capacità logiche (cosa ne direbbe Giorgio Israel?). E per capire non basta la disponibilità, anche qui serve del metodo.
Da ultimo, tra le modalità operative dei gruppi di lavoro nati dalle esperienze di Coppola un aspetto è essenziale: il luogo preferito per lezioni, seminari e confronti non è l’aula, ma il laboratorio. La didattica scientifica – della chimica, ma non solo – che nasce da una continua interazione e verifica con l’esperienza, nel suggerire riflessioni ed approfondimenti che partono dal dato sperimentale e continuamente vi ritornano (“i dannati dati sperimentali che affossano le più belle teorie”, per riprendere una citazione di Liebig cara allo scholar italoamericano). Così come un musicista non può imparare la teoria musicale stando lontano dalla sala prove.
Quanto di più lontano dalle terrificanti idee che si vada in laboratorio, annoiati e decerebrati esecutori, “per verificare la legge di X”; ma anche da quelle più strutturate che guardano teoria e pratica come momenti distinti, il cui connubio è contingente, artificiale e non indispensabile. E il tutto è proposto a studenti del primo anno del college, coetanei dei nostri maturandi. Toh – mi sono detto – chissà come la potrebbero prendere certi italici “riformatori” : il superprof sta proponendo agli Usa il modello culturale e pedagogico dei nostri venerandi Istituti Tecnici…