Caro direttore,
il dibattito proposta da IlSussidiario.net sul senso del tradurre è più importante, per le sue implicazioni, di quanto potrebbe sembrare a prima vista (e cioè un tema per soli antichisti). Tutti ricordano con qualche ambascia le versioni dal latino o dal greco, soprattutto queste ultime, specie quando mancava il titolo. A dire il vero, non si dovrebbero mai assegnare versioni senza titolo; già la “versione” di un brano staccato dal contesto, ha un che di artificiale, ma tant’è. Proviamo ad immaginare di avere comunque un brano latino o greco con titolo: questo ci indica in qualche modo la “meta” a cui bisogna arrivare, sta a noi cercare il “percorso”. Le singole frasi rappresentano le tappe di questo percorso, ma, ahimé, prese una alla volta, le frasi non ci aiutano a trovare la via “giusta”.
È come se volessimo partire da Udine per arrivare a Roma. I “navigatori” odierni ci chiedono preliminarmente se cerchiamo la via più veloce o la più breve o se vogliamo evitare le autostrade. Dipende dallo scopo del viaggio: se mi interessa ammirare il panorama o evitare il traffico o arrivare nel minor tempo possibile. Meglio prendere una carta stradale e studiarmi l’intero percorso; quindi decidere. Anche in questo caso stiamo facendo una “traduzione”.
Così di fronte a una versione, ci consigliavano i nostri insegnanti, è meglio prima leggerla e rileggerla tutta, segnare i punti chiari, le parole note e quelle sconosciute. Le parti note ci serviranno di orientamento. Così pian piano ci aiuteremo con il vocabolario. Ma il vocabolario va “interrogato”, nel senso che, tra i vari significati indicati, andrò a scegliere quella che più si adatta al testo noto. E così proseguirò fino a che l’intero brano risulterà “sensato” e aderente al titolo. Ecco l’importanza del titolo; può capitare – e capita soprattutto in greco – che la polisemia dei termini ci faccia percorrere una strada che ci porta verso tutt’altra meta.
Ho illustrato alcuni dei passaggi che ci consentono di “interpretare” un testo scritto in una lingua diversa dalla nostra. Ce ne sono indubbiamente altri, ma qui vorrei soffermarmi sulle operazioni mentali più interessanti che una versione classica ci aiuta a mettere in atto. Una visione di insieme preliminare, per quanto non ancora chiara, è la premessa per porsi delle domande a cui sottoponiamo il testo, quindi lo analizziamo nelle sue parti (frasi, parole, verbi) e riconduciamo queste ultime alla “trama”. Intuizione, ipotesi, deduzione, induzione, risposta: non sono le fasi di una qualsiasi ricerca, sia essa di carattere scientifico o diagnostica o economica o ancora “poliziesca”?
Partire dai dati (le parole o le frasi) si è detto, non ci aiuta minimamente a scoprire le cause di un fenomeno. Se voglio capire lo situazione di una azienda non mi basta conoscere le entrate e le uscite, i profitti o le perdite di un certo anno, mi interessa vedere o meglio prevedere l’andamento futuro. Può darsi che i dati mi confermino o smentiscano la mia ipotesi (chiuderà, sopravvivrà, si espanderà?), e allora prima di raccogliere i dati, ho bisogno di sapere “quali” dati mi servono. In sostanza, la ricerca scientifica non parte dalle “esperienze” (come una ingenua interpretazione del metodo galileiano fa pensare) ma “interroga” le esperienze, come vedeva giustamente Leo Apostel, è un “atto mentale”. La ricerca inizia, secondo Popper, quando si “inciampa” in un problema, in qualcosa che ancora non riusciamo a spiegare. Così è quando un brano latino o greco ci appare in una sorta di chiaroscuro. Di fronte a un disturbo qualsiasi in campo medico, devo decidere “quali” analisi mi occorrono per emettere la diagnosi. E così di fronte ai mercati finanziari che sono quanto di più “incerto” si trovano ad affrontare gli specialisti, abbiamo bisogno prima di prendere il “vocabolario” ( i dati macroeconomici) di formulare una ipotesi o una “previsione” su quali sono i dati (le frasi o le parole) che ci illuminano il cammino.
Ogni operazione di “previsione” insomma è ermeneutica e l’ermeneutica nasce proprio sul terreno della “traduzione”. Si dirà che ogni traduzione, anche quella delle lingue vive, esercita la mente nella maniera sopra descritta. Ma il vantaggio della traduzione dal latino e dal greco è che ci troviamo di fronte a lingue “concluse”, vale a dire che la loro struttura si è ormai “fissata”: è come analizzare un corpo inanimato, ma che contiene ancora in sé i segni di una vita. Sta al traduttore naturalmente ridargli una vita, nel momento in cui la “traspone” nella sua lingua vivente. E in questo modo che la traduzione è anche un “tradimento”, ma nel senso buono del termine, come sanno bene i traduttori.
Un nota bene finale. Avevo appena terminato questo mio scritto quando nelle pagine di Cultura del Corriere della sera di ieri, venerdì 24 febbraio, è comparso l’interessante articolo di Dario Antiseri Le idee che aprono la mente con il sottotitolo “La traduzione di brani dalle lingue della civiltà antica è una concreta applicazione del metodo scientifico”. C’è una evidente assonanza con il mio intervento e, si parva licet…, non posso che compiacermi. Di fronte al sottotitolo del giornale, mi sentirei di avanzare una ulteriore “provocazione”: e se il metodo scientifico non fosse che una applicazione del metodo della traduzione? Non è stato affermato da qualcuno che l’inventore del “metodo scientifico” moderno sia stato quel Lorenzo Valla, “interprete-traduttore” della famosa Donazione di Costantino?