Non trovano lavoro, è vero. Ma, spesso, neanche si danno più di tanto da fare per cercarlo; il problema è che moltissimi giovani non hanno idea di che cosa vogliono fare da grandi. E, quando la soglia del “da grandi” viene spostata sempre più in avanti nel tempo, lo scoramento aumenta di anno in anno. In tutto questo, quali sono le responsabilità dell’Università? Lo spiega a ilSussidiario.net Marisa Civardi professore ordinario di statistica sociale presso la facoltà di Economia della Bicocca di Milano e delegato del rettore per il Job Placament. «E’ possibile che molti giovani non abbiamo le idee molto chiare», afferma. «Spesso la scelta del percorso universitario non è fatta in virtù di quello che vogliono andare a fare nella vita. Credo, tuttavia, che fondamentalmente si tratti di un problema degli studenti stessi, non dell’università. Ovvero, nessuna università potrà mai essere in grado di sopperire ad un mancanza del genere. Anzi: se un ragazzo non sa cosa vuol fare nella vita, neppure la famiglia può sostituirsi a lui in tale scelta». Il problema è piuttosto diffuso: «Se escludiamo le lauree fortemente professionalizzanti, come quelle mediche o scienze delle formazione e ingegneria, dove chi esce trova lavoro in grande percentuale e ne è soddisfatto, gli altri, sovente, non hanno un’idea ben precisa del lavoro al quale aspirano».
La professoressa sottolinea un’altra dinamica: «Da due anni la quota di studenti che, finita la triennale, riprendono a studiare ha ripreso a crescere. Parte di questi si rende conto che aumentare il proprio capitale umano e la propria formazione è cosa positiva. Molti, tuttavia, purtroppo, lo fanno per procrastinare l’entrata nel mondo del lavoro. Come dire: il retro-pensiero può essere l’investimento su se stessi. Ma la molla che fa scattare la scelta di continuare a studiare è uno scoramento relativo al mondo del lavoro». Su queste pagine, Mario Mezzanzanica affermava che il problema non è tanto l’assenza di lavoro, quanto la «discrepanza tra domanda e offerta» e di «un sistema in grado» di supportare il lavoratore «nella ricerca. Sia all’ingresso che laddove sia costretto a cambiare».
Ebbene, a che punto siamo? «Quello che, effettivamente, gli atenei possono fare – dice la professoressa – è cercare di chiarir bene le idee agli studenti, nella fase di orientamento, circa gli sbocchi che possono avere. Che, in ogni caso, restano numerosissimi». Molti sostengono che l’università e il mondo delle imprese non si parlino. «Non lo facevano sino ad alcuni anni fa, ma da tempo si è innescato, in tal senso, un percorso virtuoso. La Bicocca, ad esempio, da diversi anni collabora con Italia Lavoro e con il ministero del Lavoro, per accreditare l’ateneo come vetrina per i laureati, grazie alla messa a disposizione dei loro curriculum, in modo da favorire l’incontro tra domanda e offerta. Benché in Lombardia abbiamo il vantaggio di un coordinamento tra gli atenei, sono poche, in realtà, le università che in Italia non hanno servizi di questo genere».
Ma, il problema, è sempre lo stesso: «gli studenti non hanno chiaro che è opportuno scegliere un percorso piuttosto che un altro. Non sanno ancora, per l’appunto, cosa vogliono fare». Tutto ciò è accade in virtù di una colpa originale. «Non sempre è stato così. Fino a quando l’università non era di massa, chi la frequentava sapeva benissimo che lavoro voleva e sarebbe andato a fare. Molti, ormai, si iscrivono senza sufficiente consapevolezza».