Sull’inserimento delle spese per l’istruzione nel nuovo redditometro, il filosofo Dario Antiseri tiene a fare una precisazione. «Che una famiglia mandi un figlio in una scuola non statale può essere indice di un benessere maggiore che in altre famiglie; tuttavia ci possono essere casi – e ce ne sono tanti – di famiglie che decidono di mandare i figli in una scuola non statale in nome di una libertà non garantita altrimenti, e facendo enormi sacrifici. Certo è che le spese sostenute per l’istruzione non possono in alcun modo essere paragonate all’acquisto di beni voluttuari. Per evitare polemiche sul redditometro occorrerebbe risolvere il problema alla radice: dare a tutte e famiglie un bonus da spendere come vogliono per l’istruzione dei propri figli». Commenta così Dario Antiseri l’ultima novità in fatto di istruzione, arrivata settimana scorsa nel pieno del dibattito sull’abolizione del valore legale del titolo di studio, oggetto di una retromarcia del governo. Anche su questo il professore ha qualcosa da dire. «Abolire il valore legale equivarrebbe a riconoscere un fatto inoppugnabile, è cioè che titoli di studio apparentemente equivalenti hanno valore reale diverso, a seconda dell’università dove sono conseguiti. Mi chiedo: perché, in un concorso per titoli, una laurea a pieni voti ma priva di valore reale, deve valere più di una laurea non con il massimo dei voti ma molto più solida in termini di conoscenze e competenze?».
Gìà Einaudi aveva detto che l’abolizione del valore legale risponde ad un principio di maggiore libertà.
Di maggiore libertà e di maggiore equità, perché se chi ha una preparazione inferiore viene valutato di più in virtù del valore «legale» del titolo, questa è un’ingiustizia, e un danno per il mondo del lavoro. Aggiungo però che l’abolizione del valore legale sarebbe una componente certamente necessaria ma non unica nel quadro di una riforma vera del sistema formativo.
A che cosa pensa?
La cosa più importante da fare è quella di dare ai giovani pari condizioni di partenza, cioè la stessa possibilità di frequentare questa o quella università. Facciamo l’esempio di un giovane che voglia frequentare un ateneo di qualità fuori della sua città. In Francia ci sono circa 100mila posti letto destinati agli studenti universitari, in Germania ce ne sono 220mila, in Italia 35mila: è una situazione che impedisce al sistema di funzionare in modo equo, perché se una famiglia deve spendere 6/700 euro per un posto letto e non li ha, quel giovane è costretto a scegliere l’ateneo più vicino a casa; che potrebbe essere eccellente, ma potrebbe anche essere di serie B. Dunque la prima urgenza si chiama edilizia universitaria e borse di studio. In secondo luogo, negli ultimi anni ci siamo riempiti di giovani che non faranno il lavoro per cui hanno studiato.
Parla delle lauree più inflazionate?
Sì, come scienze della formazione o della comunicazione. Per laureare questi giovani, candidati alla disoccupazione o a cambiar mestiere, abbiamo speso un sacco di soldi. Vedrei bene che il ministero, le associazioni, Confindustria, ecc. date la situazione demografica, di flussi, occupazionale e via dicendo, quantificassero periodicamente il fabbisogno di laureati stimato. A quel punto famiglie e università sono sull’avviso, ferma restando la possibilità per ognuno di fare quel che vuole.
Ma ha senso solo se le università mettono il numero chiuso.
Le università mettano il numero chiuso e al tempo stesso diano l’informazione necessaria: una sorta di «avviso ai naviganti» che traduca in numeri il fabbisogno del mondo del lavoro.
Quali sono le logiche che frenano le riforme?
Se non riuscremo a immettere nell’università forti elementi di competizione non ci sarà niente da fare. Una cosa positiva che la Gelmini ha fatto è l’Anvur. Se tu, università, fai didattica scadente, non fai ricerca, non fai buoni progetti, io – Anvur – non ti do soldi e ti faccio chiudere i corsi. L’Anvur è il punto di non ritorno: se non funzionerà, la nostra università crollerà.
Un’altra riforma da fare?
Il buono scuola, cioè un bonus che l’utente avente diritto spende nella scuola di sua scelta. Qualcuno ha notato che di buono scuola non si parla più? Ma la cosa grave è che si occulta il fatto che con il buono scuola lo Stato spenderebbe di meno. Anche in questo caso è una questione di equità: non si è capito che il buono scuola è una carta di liberazione per le famiglie più povere, perché oggi chi manda i figli in una scuola libera paga le tasse per un servizio di cui non usufruisce – la scuola pubblica – e in più paga la retta: paga due volte! Non a caso veri liberali come Friedman e Hayek hanno difeso il buono scuola come lo strumento più importante per immettere competizione nel sistema formativo.
Non sembra piuttosto lo strumento di una selezione «darwiniana» a svantaggio dei più deboli?
No, questa è una stupidaggine. A meno che non si sia per principio contrari alla libertà. La scuola di Stato ha avuto una sua precisa ragione d’essere: quale privato, nel 1946, avrebbe potuto soddisfare il bisogno di scolarità dell’Italia di quegli anni? Solo lo Stato poteva garantirla a tutti. Oggi però la situazione è totalmente diversa. Lo Stato ovunque è socialmente necessario, la competizione ovunque è storicamente possibile: questo è il principio della libertà, anche nel campo dell’istruzione.
Riusciremo mai a superare lo statalismo che affligge il nostro Paese, prima ancora come «forma mentis» che come forza dell’apparato?
Lei prima ha citato Einaudi, io le vorrei citare altri due giudizi assai lungimiranti. In una articolo intitolato Scuola e diplomi e pubblicato il 12 febbraio del 1950 su L’illustrazione italiana, Sturzo diceva, a proposito del valore del titolo rilasciato dallo Stato: «Ogni scuola, quale che sia l’ente che la mantenga, deve poter dare i suoi diplomi non in nome della Repubblica, ma in nome della propria autorità: sia la scoletta elementare di Pachino o di Tradate, sia l’università di Padova o di Bologna: il titolo vale la scuola. Se una tale scuola ha una fama riconosciuta, una tradizione rispettabile, una personalità nota nella provincia o nella nazione, o anche nell’ambito internazionale, il suo diploma sarà ricercato, se, invece, è una delle tante, il suo diploma sarà uno dei tanti».
Sturzo era un prete: tirava acqua al suo mulino.
La cosa interessante è che il 14 settembre 1918, non un liberale cattolico ma Antonio Gramsci, in un articolo uscito su Il grido del popolo, scriveva: «noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai Comuni. La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola è indipendente dal controllo dello Stato. Il compagno Bartalini non ha trovato difficoltà nel suo esperimento perché direttore di na scuola pareggiata; non è però escluso che in avvenire il Provveditore intervenga e rovini tutto il lavoro fatto. Noi dobbiamo farci propugnatori della scuola libera e conquistarci la libertà di creare la nostra scuola. I cattolici faranno altrettanto dove sono in maggioranza; chi avrà più filo tesserà più tela» (corsivi nel testo originale, ndr).
Qual è il danno peggiore dello statalismo?
Avere potere senza portarne la responsabilità. È il peggior tratto di un sistema totalitario.
(Federico Ferraù)