Come l’anno scorso, la Lombardia diffonde in anticipo i dati relativi alle iscrizioni alla scuola secondaria, grazie al sistema informatizzato di registrazione e gestione dell’Anagrafe degli Studenti. Le tendenze lombarde in questo campo non sono mai sovrapposte a quelle nazionali, ma possono consentire di individuare dei trend di interesse generale.
La Lombardia è sempre stata la Regione nella quale la licealizzazione spinta, che ha caratterizzato in questo ultimo periodo le scelte dei genitori italiani, era andata più a rilento, grazie ad una significativa resistenza dei diversi tipi di formazione per il lavoro. Ma l’anno scorso un segnale di allarme l’aveva dato il superamento a Milano del 50% delle iscrizioni ai licei. Quest’anno i licei di Milano si fermano al 48,98% . In Lombardia più sotto, al 41%, un punto in meno rispetto all’anno scorso. La loro avanzata sembra fermarsi forse per le preoccupazioni delle famiglie indotte dalla crisi economica.
La tendenza a studi generalisti prolungati non è solo italiana. In tutti i paesi “opulenti” le famiglie hanno considerato un segno di prestigio sociale l’inviare i figli a formazioni che non prevedessero l’inserimento immediato nel mondo del lavoro, come se il poter regalare ai figli un’adolescenza prolungata fosse una adeguata modalità di investimento (non peggiore peraltro di altre!) delle risorse economiche a disposizione. In Italia questa tendenza si è incontrata con la natura storicamente astratta delle nostre formazioni. Generando, nel caso dei licei, il rigetto della formazione di ogni tipo di operatività – particolarmente forte nel Sud – ed il proliferare di licei “leggeri”, nei quali il dazio da pagare per apporsi l’agognata coccarda di liceale non sembra molto gravoso.
Ed infatti. È vero che il liceo scientifico in Lombardia si porta a casa nelle sue due versioni (con e senza latino), quasi la metà delle iscrizioni liceali (47%); il liceo scientifico nuovo (delle scienze applicate) raggiunge un terzo degli iscritti, in una azione di lenta, ma costante erosione del bacino dei licei scientifici tradizionali, cui fa gioco più il prestigio della tradizione che l’alto livello del curriculo.
Ma il liceo linguistico ed il liceo delle scienze umane assieme superano il 20%, cui si aggiunge il 9% circa dei licei artistici. Mentre il liceo classico continua a perdere posizioni (nel 2011 era all’11%, oggi supera di poco il 9%) collocandosi, per iscritti, appena sopra il liceo artistico.
Il suo futuro è in bilico. L’Italia ha mantenuto la tradizione europea ottocentesca degli studi umanistici come crogiuolo di formazione di una classe dirigente relativamente allargata, fin dentro il Novecento ed oltre, fino ad oggi. In realtà, sarebbe utile che i dati (sempre loro, i grandi assenti nel nostro Paese) ci dicessero se è vero quanto impressionisticamente si coglie, che cioè questa sia rimasta una caratteristica delle grandi città (Milano, Roma) e delle medie, soprattutto del Centro Sud.
Al contrario, nelle province, soprattutto del Nord, viene avanti con forza il modello francese, per cui gli studi umanistici sono meno prestigiosi di quelli scientifici e di quelli economici e tendono ad essere riservati alle ragazze destinate all’insegnamento.
In questo i curriculi specificamente scolastici c’entrano poco; ciò che conta è la temperie culturale generale del Paese. Un Paese il nostro, con una classe dirigente politica poco moderna, in quanto continua a tenere di fatto in non cale le scienze della natura e della società, ha ostinatamente riproposto come eccellente – avendo per di più l’arroganza di non rinnovarlo – il modello di formazione filologico-letterario ancor più che storico. Tanto che l’ha imposto a tutti i filoni formativi, sia pure in versioni via via più edulcorate. Ma la realtà ha la testa dura ed ora si rischia la graduale emarginazione di questo modello, anche attraverso la marginalizzazione dei suoi insegnamenti chiave dal core curriculum e dai curriculi di fatto (che latino si impara nei licei scientifici?). Di questo è forse un segnale il graduale indebolimento dell’archetipo costituito dal liceo classico.
Dall’altro versante del mondo scolastico le cose si muovono, anche se molto lentamente. Il 29% segnala la faticosa tenuta dei tecnici, mentre l’11% degli istituti professionali di stato quinquennali la loro stabilizzata marginalità; continua la crescita dell’Istruzione e formazione professionale, che passa in due anni dal 13 al 18,5%.
Per quanto riguarda gli istituti tecnici, la accanita campagna degli ultimi anni di Miur e Confindustria in loro difesa non sembra sfondare, ma forse è servita a tenere. Probabilmente è illusorio pensare che lavori di rifinitura sui curriculi e sulle metodologie possano invertire i trend sociali: la crescita dei licei leggeri è avvenuta in questi anni a spese degli istituti tecnici, che hanno visto l’erosione della loro utenza di status economico sociale ed aspirazioni più alte. Un possibile inversione forse dipenderà, più che dai meriti dell’istruzione tecnica, dalla constatazione da parte delle famiglie che, soprattutto in tempi di crisi, gli esperti in comunicazione et similia sono attesi per lo più da un incerto impiego presso i call center.
La crescita dell’Istruzione e formazione professionale è probabilmente destinata a continuare nei confronti di una Istruzione professionale quinquennale di Stato di incerto profilo, difficilmente distinguibile dalla tecnica, se non in termini negativi e che insiste su un orario del biennio pesantemente connotato di materie generaliste, che portano a più di un quarto delle bocciature.
Tuttavia è da notarsi che l’Istruzione e formazione professionale lombarda è al momento un’eccezione nel quadro nazionale. La sua struttura è particolarmente solida ed attraente, poiché viene realizzata sia negli istituti statali che nei centri di formazione professionale e gode di un quadro di riferimento normativo da tempo definito, che ha costituito fra l’altro da punto di riferimento per la normativa nazionale in proposito.
I suoi corsi – pur fortemente orientati alla formazione per il lavoro – offrono anche un 4° anno e la possibilità di sostenere l’“esame di maturità” per le specializzazioni coerenti presenti nel filone dell’istruzione. Nel resto d’Italia la situazione sembra più debole sia perché alcune Regioni, soprattutto del Sud, sembrano avere delegato semplicemente il compito all’Istruzione professionale statale, sia perché in altre persiste il mito dell’unitarietà (e pertanto del generalismo) del biennio. Il risultato è però che, fra i 14 ed i 16 anni, le fasce di giovani meno interessate ad apprendimenti astratti e generalisti vengono massicciamente respinte e vanno ad ingrossare le fila dei famosi “dispersi”. Sarebbe auspicabile che questo iniziale incremento dell’Istruzione e formazione professionale lombarda potesse dare il segnale di una svolta anche a livello nazionale.