La legge 170 /2010 dal titolo “Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico” e la successiva emanazione, da parte del ministero dell’Istruzione, delle “Linee-guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento” sono state salutate con molto favore sia dai docenti sia dalle famiglie, in quanto costituiscono il riconoscimento della necessità di interventi specifici per alcune categorie di allievi che, pur senza presentare disabilità, non riescono a conseguire risultati scolastici ottimali.



L’applicazione operativa di quanto contenuto nei due documenti sta però evidenziando una serie di punti critici sui quali soprattutto sia gli organismi territoriali del ministero sia i docenti dovrebbero soffermarsi con adeguata attenzione.

Da alcuni anni i docenti di tutti i livelli scolastici denunciano un aumento abnorme delle problematiche di apprendimento. Non solo nella scuola primaria, ma addirittura all’università (si rammentino in proposito le misure assunte dalla Facoltà di Medicina di Torino, che nel 2009 attivò una sorta di corsi di recupero in lingua italiana) un numero elevato di studenti non è in grado di leggere e di comprendere non soltanto testi specialistici ma anche testi di cultura generale. Allo stesso modo, essi non sono in grado di scrivere in modo ortograficamente e sintatticamente corretto un testo che sia anche coerente dal punto di vista logico.



Se la legge 170 riconosce il diritto ad apprendere per tutti gli alunni, rischia però anche di attivare forme di medicalizzazione dei disturbi, per cui ogni difficoltà di apprendimento deve corrispondere a una diagnosi formulata da specialisti e a un trattamento comprendente misure compensative e dispensative.

La legge si propone, in particolare, di “favorire la diagnosi precoce” e prevede programmi di formazione del personale scolastico finalizzati ad “acquisire competenze per individuare precocemente i segnali [di Dsa] e per applicare strategie didattiche, metodologiche e valutative adeguate”.



È proprio questo il nodo critico principale: che cosa significa “precoce”? A livello scientifico il termine fa riferimento ai primi anni di vita. Da questo punto di vista, parlare di diagnosi precoce per i disturbi di apprendimento è quanto di più fuorviante possa esserci. La diagnosi dovrebbe infatti intervenire nel momento in cui il bambino ha completato il percorso di costruzione della competenza nella lingua scritta, quindi non prima degli 8 anni. In precedenza si possono evidenziare soltanto soggetti a rischio, che non necessariamente diventeranno dislessici o disgrafici. 

Sia la legge sia le Linee guida presentano poi una carenza molto grave: all’espressione “disturbi specifici di apprendimento” non aggiungono infatti l’aggettivo “evolutivi”. Non è una precisazione di poco conto. Si tratta infatti di problemi di apprendimento conseguenti non alla perdita di una capacità già acquisita, ma allo sviluppo non adeguato della competenza scolastica per eccellenza: quella relativa alla lingua scritta.

Affrontare in modo corretto e produttivo i disturbi di apprendimento richiederebbe quindi la conoscenza preliminare, da parte dei docenti, delle fasi attraverso cui lo sviluppo di tale  competenza avviene. Fasi che si succedono in ordine rigido e nelle quali ciascuna capitalizza e amplia la fase precedente.

Conoscere ad esempio le fasi di sviluppo della capacità di lettura individuate da Uta Frith (una delle maggiori studiose della dislessia) consente di precisare i momenti in cui intervengono le due maggiori forme di dislessia: quella legata a difficoltà di carattere fonologico e quella dovuta al mancato raggiungimento degli automatismi nella lettura e nella scrittura.

Solo la conoscenza delle fasi di sviluppo permette infine di operare scelte corrette in termini di strumenti compensativi e dispensativi. Riconoscere le difficoltà degli alunni non deve significare privarli di ogni possibilità di esercitare capacità di cui non necessariamente risultano privi. Esistono infatti anche i “falsi positivi”, cioè soggetti che, pur presentando apparentemente le caratteristiche dei dislessici o dei disgrafici o dei discalculici, in realtà, più semplicemente, non hanno potuto fruire di percorsi di apprendimento adeguati e rispettosi del loro processo di sviluppo.

La scuola, pertanto, dovrebbe in primo luogo riconsiderare le metodologie utilizzare per insegnare la lingua scritta e, come ricorda opportunamente la legge 170, fondare tali metodologie su evidenze scientifiche rigorose e non su mode momentanee o sul senso comune.