Negli ultimi tempi su diversi giornali varie voci si sono interrogate sulla ragion d’essere della prova di traduzione dal greco e dal latino nella pratica scolastica, anche alla luce del fatto che i testi classici sono ormai accessibili a tutti in ottime traduzioni.
In un notevole articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 24 febbraio, Dario Antiseri afferma il valore della traduzione dal greco e dal latino “per la formazione di menti aperte, vale a dire di menti né scettiche né dogmatiche. E tutto questo nella consapevolezza che il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza – su quello che pensiamo noi e su quello che dicono gli altri. Menti aperte: primo ed irrinunciabile presidio di una società aperta”. La forza che il filosofo riconosce alla traduzione è quello di essere «problema»: “Tutta la ricerca, in qualsiasi ambito essa venga praticata (dalla fisica all’interpretazione di un testo o di una traccia storica) consiste in tentativi di soluzione di problemi tramite la creazione di ipotesi da sottoporre ai più severi controlli […] È esattamente in questo orizzonte che si comprende l’urgente necessità di una didattica che – affinché non si continui a dare risposte a domande non poste – punti sui problemi più che sugli esercizi. Il problema va risolto, l’esercizio va eseguito; […] il problema forma, l’esercizio addestra; il problema scatena la ricerca, l’esercizio presuppone risultati di ricerche già fatte. Ma qui sta proprio il guaio, perché quelli indicati come problemi nei testi, per esempio, di geometria, di algebra, di chimica o di trigonometria… non sono problemi, sono esercizi. Per cui si dà che non di rado nei nostri licei scientifici l’unica vera attività di ricerca sia consistita, e forse talvolta consista ancora, nella versione di latino”.
Analogamente Maria Pia Biroccesi, su questo giornale, ripercorrendo con puntualità le operazioni del tradurre scrive: “Momento di straordinaria valenza formativa per l’attenzione, concentrazione, pazienza e precisione che richiede, doti così indispensabili nei vari ambiti del sapere come di ogni attività umana, ma che nel nostro tempo giacciono spesso inutilizzate e inerti!” e conclude: “In sintesi, l’atto del tradurre può restituirci a noi stessi, come esseri capaci appunto di ‘pensare’, come dicono i latini, cioè di ‘pesare’, soppesare, valutare le cose”. Dunque, la traduzione come un insostituibile allenamento dei processi della ragione (metodo ipotetico-deduttivo, capacità critica e valutativa per la formazione di “menti aperte”.
Mi permetto di affacciarmi al dibattito per mettere in luce un aspetto particolare, che nella mia esperienza di insegnante di greco e latino si rende sempre più chiaro. Cosa significa “tradurre”? Significa recuperare il senso di un testo in una certa lingua e riformularlo in un’altra. Ma è veramente possibile recuperare il senso quando le strutture linguistiche, anche di lingue affini, presentano comunque diversità, che sono diversità nel modo di leggere la realtà?
Un esempio banale: il latino ha due vocaboli per indicare il colore bianco: albus, che il “bianco opaco” e candidus che è il “bianco brillante”, perciò il monte imbiancato di neve è candidum (nive candidum Soracte, Orazio), la barba è alba (Plauto); la stessa opposizione c’è tra i due termini che indicano il nero, ater e niger. Dunque i Latini hanno una percezione dei due colori diversa dalla nostra, non dal punto di vista fisico, ma per la rilevanza che attribuiscono alla distinzione tra opaco e luminoso, fino a sentire l’urgenza di una distinzione lessicale.
Chi traduce può risolvere il problema specificando, ad esempio, “bianco luminoso”: ma resta il fatto che la lingua latina “legge” il colore in un modo, quella italiana in un altro, indicando una lettura diversa dell’esperienza. L’esempio può far solo intuire la grande questione: fino a che punto la traduzione recupera e restituisce il senso di un testo, cioè fino a che punto permette al lettore di condividere l’esperienza che sta dietro il testo e che la lingua racconta? Ecco che il problema della traduzione rende evidente un problema che è al fondo di ogni comunicazione, anche intralinguistica, cioè tra parlanti una stessa lingua: fino a che punto io riesco a recuperare il senso di ciò che ascolto o di ciò che leggo?
Sara Cigada, nel suo saggio Nomi e cose scrive: “ci facciamo un’idea del significato di un segno a partire dall’esperienza personale che abbiamo avuto delle porzioni di mondo cui i segni rinviano. Ecco allora il problema della intraducibilità come problema della vita quotidiana, che nasce da quel fenomeno che chiamiamo ormai tutti misunderstanding”. È possibile una comunicazione “felice”, cioè una reale condivisione di significati e di esperienze? Ancora la Cigada scrive: “Il fatto di ritenere che una comunicazione ‘felice’ sia una comunicazione rapida e immediata è un equivoco sciocco, ma diffuso: l’esperienza dice che l’intesa tra due persone è rara – non è un caso che dia tanta soddisfazione trovare qualcuno con cui ci si capisce al volo. Assai più spesso, l’intesa è il risultato di un lavoro lungo di rielaborazione comune delle parziali comprensioni e delle incomprensioni, rielaborazione che avviene attraverso il dialogo”.
Allora la fatica dei nostri studenti che combattono con le “versioni” di Erodoto, Tucidide, Platone, Cicerone, Seneca, Tacito tra successi e sconfitte, soddisfazioni e delusioni, può essere anche un contributo a renderli (e renderci) consapevoli della necessità di “lungo lavoro di rielaborazione comune” per una reale comprensione tra gli uomini e un’educazione alla disponibilità d’animo che il dialogo richiede.
Proprio in un tempo che ha fatto della comunicazione la sua chiave di lettura non si può non domandarsi a che condizioni si realizzi una effettiva condivisione di significati nel continuo scambio di immagini e parole a cui partecipiamo. Se non si coglie questo problema, si può continuare a pensare come scrive Vespa su Panorama del 7 febbraio 2012: “È utile studiare il greco nel 2012? Con molta sofferenza e a costo di fare rivoltare nella tomba un mio vecchio, caro professore che ci intimidiva per il fatto stesso di pensare in greco (così si diceva e nessuno osava chiedergli una smentita), direi di no. Un corso sulla magnifica civiltà greca (la politica, la letteratura, le arti) è d’obbligo al liceo classico. Ma la lingua è troppo ostica per la maggior parte degli studenti perché essi possano mai assaporare davvero in originale i versi di Omero, i dialoghi di Platone, le commedie di Aristofane, le favole di Esopo”.
Il contributo civile della prova di traduzione dalle lingue classiche forse è molto più profondo e più urgente della possibilità di leggere in lingua originale una favola di Esopo.