“Cosa succede in una società fondata sul lavoro quando il lavoro viene a mancare?”, si chiedeva Hannah Arendt, filosofo, allieva di Heidegger. Domanda drammatica, oggi più di ieri, per la crisi che sta attanagliando in particolare il mondo occidentale. Drammatica perché riassume e dice totalmente la nostra storia quotidiana.



Eppure, sino a non molti anni fa, vi era chi parlava di liberazione dal lavoro, in nome di una società, sulla scorta marxiana, che si sarebbe dovuta liberare da ogni forma di oppressione, rappresentata appunto dall’alienazione del lavoro. E ricordiamo tutti il successo, negli anni novanta, degli scritti di Jeremy Rifkin sulla “fine del lavoro” e sull’avvento dell’èra del post-mercato. L’alternativa di Rifkin, in un libro uscito due anni fa, è “La civiltà dell’empatia”, unico vero antidoto, secondo lui, al dominante utilitarismo.



Gli ultimi anni mi pare abbiano imposto, però, un più articolato angolo visuale, con una inedita, rispetto a tanta letteratura, centralità del lavoro nella vita delle persone. Compresa la fine dell’antica dicotomia tra otium e negotium. Il lavoro richiede diversi approcci, oltre le vecchie visuali economicistiche e giuridiche, per le tante implicazioni psico-sociali ed organizzative.

Nei colloqui per le assunzioni, oltre alle competenze trasversali e specialistiche, contano soprattutto altre dimensioni: l’evidente disponibilità a mettersi in gioco, ad imparare, a fare squadra. La parola chiave è “competenze”, cioè il “saper fare”. Per tutte le professioni, comprese quelle intellettuali e creative. Cioè la cultura dei risultati, secondo un’etica delle reciproche responsabilità.



Se è vero che rispetto a cento anni fa gli italiani oggi lavorano lavorano 100 miliardi di ore in meno, è altrettanto vero che producono nello stesso tempo 13 volte in più. Nella vicina Francia, nel giro di 200 anni, l’occupazione è cresciuta di 1,75 volte, ma con una produzione che è aumentata di ben 26 volte. E’ la forza della rivoluzione tecnologica, lo sappiamo bene. Un esempio: più della meccanica-meccatronica, è l’elettronica che distrugge più lavoro di quanto ne crei.

La rivoluzione in atto, dunque, sta sconvolgendo le vecchie prassi come le vecchie regole del mercato del lavoro, in una società sempre più inter-dipendente e quindi iper-competitiva, lacerata in termini sociali ed intergenerazionali.

Proviamo ad immaginare un futuro probabile del mondo del lavoro: accanto ad una massa di lavoratori poco qualificati ed insicuri, avremo un’élite di lavoratori di talento sempre più nomadi, corteggiati dalle imprese e vincolati a “patti di non concorrenza”, pur di non consentire fughe precipitose verso altre aziende concorrenti. Nuovi poveri e nuovi ricchi, non sulla base di vecchie rendite di posizione, ma in virtù della sola competenza iper-specialistica e sempre problematica. Un mondo “liquido” per tutti.

Una società frammentata in un contesto di professioni precarie, sicure solo per i nomadi di talento, insicure per tutti gli altri, a meno di condizioni contrattuali e stipendiali minimaliste.

Si comprende, in ragione di questa situazione, il fenomeno Neet (Not in education, employment or training), cioè l’alta percentuale di giovani che, ottenuto un titolo di studio, hanno rinunciato a cercarsi una occupazione, ma anche a seguire altri percorsi di formazione.

Se, come ha messo in evidenza Pietro Ichino, negli Usa e nei Paesi Scandinavi i disoccupati hanno maggiori opportunità di trovare un lavoro, rimane da ripensare alla situazione italiana, nella quale in un mese ritrova il lavoro solo il 6 per cento, in un contesto iper-garantista per chi ha invece il “posto fisso”.

La novità che dovremmo tutti assieme maturare è la seguente: distinguere tra garanzia verso la persona (con il relativo welfare), ma nella piena valutazione delle competenze e dell’effettivo servizio; dallo Statuto dei Lavoratori, cioè, allo Statuto dei Lavori. Perché sotto contratto non vi è la persona, che va sempre tutelata, ma sono le sue competenze, che vanno di continuo monitorate in termini di risultati e di spinta innovativa.

Le vere riforme, dunque, non solo quelle che convengono, ma quelle che costano. Ognuno per la propria parte. La via della effettiva equità, dunque, in ragione del merito.

I nostri figli, in poche parole, stanno pagando gli errori di prospettiva dei padri. E i loro figli, quale situazione si ritroveranno? In un mondo globalizzato, anche il destino del lavoro sarà globalizzato: cercheranno e troveranno lavoro sulla base delle competenze spendibili. Su scenari, però, totalmente diversi dai nostri: se il Pil pro-capite italiano è di 37mila dollari e quello cinese di 3.740 dollari, sono evidenti le conseguenze.

Ma, forse, nel frattempo, maturerà, nel nostro mondo occidentale, un nuovo modello di società civile, più sobrio, meno vincolato al consumo fine a se stesso. Forse. E potrebbe avere ragione Heidegger: questo nostro futuro dominato dalla tecnica è ancora “da pensare”, in termini di valorizzazione dell’umano e quindi del suo operare ed essere. Attraverso il lavoro, per un nuovo senso dell’esistenza personale, sociale, istituzionale.