Caro direttore,

è da quando ho scoperto che tutto il mio amato mondo classico è tradotto su internet ed è scaricabile con il telefonino durante il compito in classe che mi chiedo: “cui prodest”? (a che giova?) E mi fanno pensare ancora di più quelle mamme che, ai colloqui, sottolineando tutti i benefici che hanno tratto nella vita dal latino e greco, sembrano infondermi coraggio.



Tuttavia vorrei cercare di rispondere a questa domanda che in molti oggi si pongono: può internet porre fine a studi millenari come quelli delle lingue classiche su cui si sono formate intere generazioni? Sul tema dell’ossimorica “utile inutilità” degli studi umanistici si è dibattuto molto su questo giornale ma anche altrove (basti pensare all’intervento dello stesso Bruno Vespa su Panorama o alla ripubblicazione dei classici da parte del Corriere) e credo che Paola Mastrocola abbia incarnato più e meglio di chiunque altro questa battaglia (vincendola a pieni voti).



Tuttavia mi preme spostare l’attenzione sulle traduzioni che si fanno non con l’aiuto del vocabolario, ma del sito web. In questo caso mi chiedo: che utilità ha copiare la versione da internet? Che senso ha fare una versione così se manca proprio quell’incontro – scontro con ciò che è “altro da me”, cioè con il pensiero nascosto dietro la lingua greca o latina di un autore che aveva il mio stesso cuore, ma che io scelgo di non far rivivere in me?

Se invece gli studenti, pur sapendo di avere una biblioteca virtuale a disposizione per fare i compiti al posto loro, si cimentassero a capire cosa voleva dire quel tizio vissuto tanto tempo fa, eppure rimasto immortale grazie a quelle dieci righe di versione scampate al naufragio del tempo, scoprirebbero che le lingue classiche insegnano a ragionare in un modo che nemmeno i numeri della matematica sono in grado di fare. La famosa “forma mentis” che scaturisce da queste lingue (uniche nel loro genere) fornisce una capacità di affrontare ostacoli e difficoltà quotidiane che non può certo essere definita “improduttiva”.



Alcuni obietteranno che tutti i problemi del latino si potrebbero risolvere imparandolo come una lingua moderna, cioè passando dal metodo tradizionale (traduzione dal latino o dal greco in italiano) ad un “corso di latino parlato” (cosa che si fa già in numerose scuole). In tal modo il latino sarebbe più appetibile e meno ostico agli studenti; certo sarebbe un gioco ma comunque non risponderebbe meglio delle traduzioni alla famosa domanda di “utilità” che tutti ci pongono. E forse si perderebbe anche quel “feeling” di trasmissione scritta che c’è tra noi e l’antico scrittore (che nessuno sapeva come parlasse o pronunciasse quelle parole che pure leggiamo così bene!).

Ad ogni modo la rivalutazione dell’humanitas farebbe certamente bene a questo mondo seppellito dall’apatia; la società circostante spesso appare meno moderna e più marcia del più antico papiro greco pervenuto: questo invece, se letto con attenzione, parla a noi e di noi meglio di qualsiasi psicologo contemporaneo. Ma tocca ai “traduttori umani” – non a quelli virtuali – “tradurre” la sua ricetta in una “cura” (nel senso latino del termine!) adatta all’hic et nunc

Leggi anche

SCUOLA/ Quinta ora, la "lezione" di SallustioSCUOLA/ Greco o latino, guai a "rottamare" la versioneSCUOLA/ Quando una cattiva riforma fa rivivere Tacito e Catullo