Terzo articolo dell’autore dedicato all’insegnamento della cultura classica. Il contributo è un approfondimento del dibattito sul senso del tradurre a scuola. Qui il secondo ed il primo articolo.

La storia della didattica della lingua latina si armonizza meravigliosamente con quanto abbiamo presentato nelle puntate precedenti. La grammatica, come ognuno sa, non è sempre esistita, e forse è un’invenzione degli Stoici. Si tratta cioè in origine di una speculazione filosofica propria di studi avanzati. In questa veste essa è parte degli studi di grado superiore (universitario, diremmo) lungo tutta la storia della cultura europea.



Lungi da me, quindi, deprezzarne il valore. Tuttavia tendenzialmente nessuno si è mai sognato di applicarla come metodo di insegnamento di una lingua seconda, tantomeno negli stadi elementari dell’apprendimento. Come oggigiorno nessuno si sognerebbe di apprendere una lingua seconda cominciando a studiare le regole grammaticali slegate dall’usus. Anzi, nelle migliori scuole di lingue avviene il contrario: dall’usus si passa progressivamente alla ratio. L’esperienza della lingua precede la sua categorizzazione. Altrimenti i figli di immigrati o di coppie miste, per quale magia imparano due o talvolta più lingue? Così è stato in epoca imperiale, quando occorreva che i cittadini di una metà imparassero la lingua dell’altra metà (cfr. gli Hermeneumata Pseudodositheana, del III sec. d.C.), così è stato in epoca tardoantica e medievale, quando ottimi scrittori apprendevano il latino “vivo” dalla bocca del maestro o dall’usus degli scrittori.



Nessuna spiegazione della consecutio temporum, per intenderci. Ancor più nella grande stagione pedagogica dell’Umanesimo, quando l’usus è stato accompagnato da una seria riflessione didattica e pedagogica, che ha prodotto strumenti per l’apprendimento scolare, la cui fortuna è durata guarda caso fino al XVIII secolo. Quindi, se il latino oggi non è lingua materna di nessuno, nulla di grave: si è già detto che non lo fu neanche del primo scrittore latino né di moltissimi altri che scelsero la lingua di Roma. Ciò non ha impedito addirittura che per i lunghi secoli nei quali verosimilmente il latino che conosciamo dai testi non fu più lingua nativa di nessuno, numerosissime persone lo imparassero, dalla tradizione “viva” dell’insegnamento e degli scrittori. O vogliamo sostenere che il Latino di sant’Agostino, Beda il Venerabile, san Bernardo, Dante, Petrarca, Erasmo, Bacone, Newton, non fu tale? Forse che l’italiano dei giornali di oggi è lo stesso de I promessi sposi o del Convivio?



Molto semplicemente, il latino come tutte le lingue “vive” ha una sua storia ed evoluzione. Certo, con l’unica eccezionale caratteristica di essere stata una lingua appresa per molti secoli, per via “paterna”, magisteriale e scrittoria, ma ciò non ha impedito di parlarla, comprenderla, scriverla. Allora smettiamola con la lingua “morta”, a meno che con tale termine non si voglia indicare l’akmé della sua evoluzione letteraria e quindi la sua normatizzazione: in questo caso il contesto di quest’operazione furono le opere e l’epoca di Cesare e Cicerone [Cfr. Stroh W., Latein ist tot, es lebe Latein. Kleine Geschichte einer grossen Sprachen, Berlin 2007]. Si tratta piuttosto di una lingua “viva” ma chiusa, modellata su un corpus delimitato di atti comunicativi. Ma ciò non ha impedito una creatività linguistica, se perfino Newton ha potuto scrivere i suoi Philosophiae naturalis principia mathematica.

Dalla sua fissazione letteraria in poi, certamente l’usus del vulgus ha prodotto ininterrotte mutazioni che tra il III sec. (cfr. l’Appendix Probi) e il VIII sec. d.C. (cfr. le Glosse di Reichenau) hanno prodotto il latino tardo [Cfr. Loefstedt E., Il latino tardo. Aspetti e problemi, Brescia 1980] e la sua variante popolare e per lo più “orale”, ovviamente attestabile solo per indizi indiretti, che chiamiamo “latino volgare” [Cfr. Väänänen V., Introduzione al Latino volgare, Patron 1982]. Ciò non ha impedito che il prestigio della lingua letteraria le garantisse prolungata vita (fino, per esempio all’attuale Romano Pontefice…).

Certo, oggi non sono più in molti a sapere il latino nel senso di “potere, esser in grado di”, come ci suggeriscono le lingue germaniche. Il meglio che circola di solito a livello di istruzione superiore è una faticosa competenza passiva, ottenuta “per un piccolo numero soltanto, dopo molto tempo e non senza mescolanza di errori”, ovviamente con l’indispensabile compagnia del dizionario e applicabile solo a segmenti testuali assai ridotti. Quanti sono coloro che dopo 5 (cinque!) anni di liceo, anche classico, e magari 4 o 5 anni di studi letterarii all’università sono in grado da soli alla sera di “entrare nelle antique corti delli antiqui huomini” e come il Machiavelli colloquiare con i loro testi? Chiunque invece dedica la metà del tempo che fino ad ora veniva dedicato al latino ad un’altra lingua straniera, è senz’altro in grado di leggere un giornale o un romanzo in quella lingua. Qualcosa evidentemente non funziona. E questo qualcosa è stata l’introduzione scriteriata, a tutti i livelli dell’insegnamento, della categorizzazione astratta di regole grammaticali, che progressivamente hanno bandito l’uso linguistico dalle scuole, fino a che sono morti più o meno tutti i maestri in grado di trasmettere l’uso vivo del latino. Si può fissare la data di nascita di questo processo, guarda caso, al 1660, con la pubblicazione della Grammaire générale et raisonnée de Port Royal. Il primo grido di allarme fu nientemeno che di Pascoli, nella sua relazione del 1893 all’allora ministro della P.I. F. Martini.

Di quella relazione, sollecitata dal ministro per individuare “le cagioni principali dello scarso profitto del latino [sic!] nei ginnasi e nei Licei” e i possibili rimedi, vale la pena riportare qualche citazione: “si legge poco, e poco genialmente, soffocando la sentenza dello scrittore sotto la grammatica, la metrica, la linguistica. I più volenterosi si annoiano […] e ricorrono ai traduttori non ostinandosi più contro difficoltà che, spesso a torto, credono più forti della loro pazienza […] Le materie di studio si moltiplicano, e l’arte classica e i grandi scrittori non hanno ancora mostrato al giovane stanco pur un lampo del loro divino sorriso. Anche nei Licei […] la grammatica si stende come un’ombra sui fiori immortali del pensiero antico […] Il giovane esce, come può, dal Liceo e getta i libri: Virgilio, Orazio, Livio, Tacito! dei quali ogni linea, si può dire, nascondeva un laccio grammaticale e costò uno sforzo e provocò uno sbadiglio”. Il Pascoli, che pur sembra fare molte concessioni alla grammatica o comunque teme di non apparire “moderno” (“Né vieti sistemi, né troppa filologia”), riconosce tuttavia che senza una adeguata conoscenza linguistica di base, gli autori diventano pretesto per il mero esercizio analitico, grammaticale e traduttivo. Per questo, tra i rimedi suggerisce: “La grammatica dia la chiave dell’interpretazione, ma stia, quando non è necessaria, in disparte. L’insegnamento della grammatica sia tenuto ben diviso e distinto dalla lettura e dalla interpretazione dei classici”.

Ancora più diretto il secondo quesito ministeriale – “Il metodo scientifico [sic!] nell’insegnamento della grammatica latina affretta o ritarda l’apprendimento della lingua?” – cui Pascoli risponde: “Sono pubblicate […] grammatiche latine ove i fenomeni fonetici e morfologici sono sistematicamente insegnati e illustrati col lume degli odierni studi glottologici […] possiamo dichiarare che il metodo che vi regna con le sue minuzie […] e continui richiami alla meditazione e al raziocinio, non affretta davvero l’apprendimento della lingua”.

Le cose non mutarono molto se nella relazione della Commissione Reale per l’ordinamento degli studi secondari in Italia, del 1909 troviamo scritto: “Il metodo adottato nelle scuole italiane per l’insegnamento delle lingue classiche è il più difficoltoso e il meno redditizio; serve poco alla conoscenza della lingua, serve anche meno alla conoscenza dello spirito letterario. Alla base del fallimento vi sono due errori di fondo: il primo, ed è il più grave e il più frequente, e quindi anche quello che più comunemente viene lamentato, è di prendere subito le mosse da un insegnamento sistematico della grammatica per introdurre alla conoscenza della lingua, e poi di continuare ad insistere con esso come se nell’apprendimento delle regole sue e nelle ripetute esercitazioni per applicarle consistesse tutta la ragione dello studio della lingua, anzi l’essenza della lingua stessa. L’altro errore, pure frequente, ma meno generale, è di estendere oltre la conoscenza e i bisogni propri alla scuola secondaria l’erudizione filologica e l’analisi grammaticale, morfologica e sintattica, della parola, della frase, del periodo, in guisa che la parola per sé diventi l’obiettivo principale dell’istruzione linguistica”.

Più chiaro di così non ci si poteva esprimere! Il problema è avvertito non solo in Italia ma, per esempio, anche in Inghilterra, dove eminenti studiosi e docenti, come Rouse, Appleton e Jones, nei primi decenni del 900 propugnano e sperimentano con successo il ritorno al metodo “tradizionale” [sic!], ovvero il metodo “diretto” o metodo natura.

 

(3 – continua)

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