Il dibattito sulla traduzione svolge un ruolo importante nella riflessione linguistica di tutti i tempi (in particolare furono i Romani a ravvisare nella traduzione un’attività intellettuale e una pratica linguistica non ovvia e consapevolmente non limitata a prodotti d’uso), ma è di particolare rilievo quando si tratta delle cosiddette “lingue classiche”, il latino e il greco, giacché nella prassi didattica di queste lingue, soprattutto in Italia, l’abilità traduttiva è considerata, di fatto ma anche a livello di riflessione didattica, l’unica abilità degna di essere perseguita. Sia i programmi ministeriali, sia i più recenti progetti di certificazione linguistica, sia i regolamenti dei numerosi concorsi di latino e greco che fioriscono un po’ ovunque in Italia considerano evidentemente cosa ovvia che la traduzione costituisca insieme (1) modalità di apprendimento della lingua (2) sistema di verifica (3) fine supremo dello studio della materia.
Non intendo proporre un nuovo esame delle categorie fondamentali che sono chiamate in causa laddove ci si interroghi sul tradurre; egregiamente si è riflettuto su queste cose in alcuni interventi pubblicati proprio su queste pagine. Cercherò, concentrandomi sulla questione traduttiva nel campo del greco e del latino, di mettere in luce alcuni presupposti che paiono ovvî, ma che, temo, tali proprio non sono: e se ritengo solo onestà intellettuale ammettere il fallimento della didattica del latino e del greco (come ho cercato di sostenere su Nuova Secondaria nel gennaio di quest’anno) credo che in questo disastro un ruolo non secondario abbia svolto, e stia svolgendo, una considerazione errata del ruolo della traduzione nell’apprendimento delle lingue – giacché non sarà male ricordare, intanto per dirlo una volta per tutte, che il latino e il greco sono lingue, lingue come tutte le altre, con il loro bravo armamentario fonetico, morfologico, sintattico, con le loro stranezze e i loro “tics” espressivi, non di più e non di meno di qualunque altra lingua di questo mondo.
Nell’apprendimento di ogni lingua diversa dalla propria lingua materna debbono coesistere sempre due momenti: quello dell’immersione nella lingua e quello della presa di distanza dalla lingua che si sta studiando. Per esempio, la lettura di un giornale tedesco non implica una traduzione: come non implica traduzione la visione di un film in inglese o l’ascolto di una canzone in francese. Anzi, al contrario, qualunque metodologia didattica un po’ aggiornata spingerà lo studente a non preoccuparsi di cogliere tutti gli elementi del testo, ma a seguire l’andamento del discorso, a individuarne i temi portanti e le strutture fondamentali. Questo tipo di attività ha appunto il fine di immergere lo studente nella lingua che sta apprendendo. L’attività traduttiva è anch’essa necessaria, e andrà ivi individuato il momento del confronto tra le lingue – la lingua materna, appunto, e quella che si sta apprendendo. L’apprendimento della lingua si svolgerà in gran parte attraverso esercizi interni alla lingua stessa: trasformazioni, integrazioni (“blank spaces”), riscritture ecc. La traduzione costituirà un momento (uno dei momenti) di verifica, non uno strumento di apprendimento della lingua.
Purtroppo la prassi didattica soprattutto italiana confonde in modo irrimediabile i piani: la traduzione (sia di frasi singole, sia di brani isolati – le cosiddette “versioni” – sia di sequenze di maggiore estensione) rappresenta l’unico strumento impiegato sia a livello di apprendimento sia a livello di verifica. Il risultato è disastroso perché in questo modo la lingua che si dovrebbe apprendere (il latino, il greco) viene sempre “filtrata” attraverso le strutture dell’italiano: e in questo modo, semplicemente, non si può imparare nessuna lingua. Lo studente (e molto di frequente l’insegnante) descrive le strutture del latino o del greco non attraverso una descrizione funzionale interna alla lingua che si vorrebbe apprendere, ma attraverso meccanismi traduttivi: dunque il latino non viene pensato in quanto tale, ma solo attraverso il confronto con traducenti italiani.
Ad esempio un meccanismo molto semplice da descrivere quale quello dei verbi di comando al passivo (iubeor ecc.) viene interpretato attraverso contorcimenti traduttivi necessariamente molto complessi, generatori di eccezioni e di particolarità che tali sono solo perché il meccanismo scelto è quello, appunto, differenziale e non interno all’oggetto di descrizione. E si osservi che qualunque studente comprende immediatamente analoghe strutture dell’inglese (ad es. “I was ordered to do…”) senza preoccuparsi di descrivere l’inglese attraverso l’incongrua mediazione dei possibili traducenti italiani.
Il risultato è naturalmente l’inefficienza di qualunque tentativo di insegnamento del latino e del greco e la perdita stessa del valore educativo grandissimo della traduzione. Utilizzata in modo cosí maldestro, la traduzione perde la propria specificità di luogo di verifica della vicinanza e della distanza tra le lingue, e si trasforma in un mostruoso ibrido che non riesce né a descrivere l’oggetto linguistico né a farne percepire la distanza rispetto alla lingua materna. Certamente il problema di base della didattica del latino e del greco, ma anche in generale delle materie umanistiche, è di tipo motivazionale: far riprendere alla traduzione il suo vero ruolo, liberandola da compiti che non le spettano, non risolverà certo il problema della sensatezza dello studio di queste materie, ma potrà offrire un contributo di efficienza didattica dai risultati sicuri e ben sperimentati dalla pratica didattica ormai consolidata al di fuori della scuola italiana.