Contestati, anche fortemente, persino all’interno delle istituzioni scolastiche. Accusati, spesso duramente, di aver abdicato alla funzione di rappresentanza generale dell’interesse dei lavoratori. Bersagliati, come non mai, da aggressive e spregiudicate campagne anti-casta. Eppure ancora forti e rappresentativi e capaci di attirare voti e consensi. Era alta, la posta in gioco delle elezioni delle Rsu nel mondo della scuola. Molto più alta di quanto le stesse parole del sindacalese parevano indicare. Quasi un milione di persone chiamate a rieleggere, dopo 5 o in alcuni casi 6 anni, i propri rappresentanti.



Una prova di democrazia che ha messo sotto la lente di ingrandimento un meccanismo di rappresentanza con centinaia e centinaia di liste e candidati, qualche volta solo in parte decisi dalla base. Ma soprattutto un banco di prova cruciale per Cgil, Cisl e Uil e per le altre sigle minori, che in alcune realtà non sono poi così ininfluenti. Perché in cinque anni tutto è cambiato, o quasi, sia nelle relazioni tra le tre organizzazioni, che non sono certamente migliorate, sia nei rapporti tra sindacati e amministrazione centrale.



Una prova di democrazia, ma anche politica che, a urne chiuse, doveva chiarire se quella strategia del “risultato”, che in molte amministrazioni – soprattutto fuori dal mondo della scuola – ha portato Uil e Cisl molto in alto in classifica, funziona ancora, in un momento di tagli radicali ai bilanci pubblici, di blocco delle assunzioni, di riduzioni della flessibilità e dei “privilegi” dei quali i dipendenti pubblici parevano godere fino a non molto tempo fa.

E’ finita con un risultato che è innanzitutto una sorpresa. Quella di una partecipazione assai ampia, che ha coinvolto oltre l’80 per cento degli aventi diritto al voto, superiore alla media dei votanti in tutto il pubblico impiego. Un dato di poco superiore a quello della precedente consultazione (79,5 per cento), ma che non può non essere letto come una rinnovata legittimazione delle Rsu, visto che in molti scommettevano su un calo di votanti e su un significativo segnale di disaffezione verso i meccanismi di partecipazione sindacale.



Tutto il contrario, invece. A conferma del fatto che quello della scuola resta un pianeta ad alto tasso di sindacalizzazione, con 5 docenti su 10 che si iscrivono ad un sindacato e 3 su 10 che si iscrivono ad una associazione. E a conferma del fatto che la diminuzione – negli ultimi venti anni – della quota degli ex-iscritti è segno reale di una minore delusione nella partecipazione alla vita sindacale. Del resto se i docenti non volessero la Rsu, potrebbero non votare: se i votanti sono meno del 50 per cento, la Rsu non si costituisce. E i docenti potrebbero ottenerlo, essendo più di tre quarti degli addetti di una scuola. Invece la partecipazione è da sempre molto alta.

Si pronosticavano, parimenti, grandi sconvolgimenti nei rapporti di forza tra le diverse sigle sindacali. E’ finita invece con una riproposizione sostanziale di quelli della precedente tornata elettorale. E, in generale, con una conferma della solidità delle tradizionali sigle del sindacalismo scolastico – e in modo particolare di quelle confederali – tutte in crescita rispetto alle elezioni precedenti: la Cgil oltre il 33 per cento, con un incremento importante (quasi tre punti), ma non quanto sperato. Con la Cisl che sfiora il 25, la Uil che avanza di un punto e va oltre il 15, superando lo Snals in calo, ma anche lui vicino al 15 per cento.

E poi la Gilda, che continuerà ad essere presente ai tavoli delle trattative nazionali, superando (anche grazie a quasi 50.000 deleghe) la soglia minima del 5 per cento di rappresentatività. Quota non raggiunta invece dai Cobas e dall’Anief, che comunque – nelle scuole deve erano presenti – hanno ottenuto significativi risultati.

Con risultati così, non si può non dar ragione a chi – come la Cisl – sostiene che “nessuno può vantare e cantare vittorie epocali”. Nessuna organizzazione (e il riferimento sembra proprio alla Cgil)  potrà proporsi come portavoce esclusivo di una categoria che distribuisce i suoi consensi in modo così articolato. Ma sarebbe comunque un errore non leggere, anche nei risultati e nei commenti, la conferma di rapporti sempre più difficili, soprattutto all’interno delle organizzazioni maggiori. Non solo per riflesso delle situazioni a livello nazionale, ma per l’obiettiva diversità di vedute e di obiettivi che emerge sempre più per quanto riguarda il futuro della scuola e i suoi assetti.

E qui sta il punto. Dopo aver difeso, fino all’impossibile, un sistema sempre più imbalsamato, dopo essere penetrati, attraverso la leva dei contratti, in tutti i minimi dettagli gestionali dell’organizzazione delle scuole, acquisendo di fatto un potere di veto o di freno rispetto a qualunque iniziativa in direzione di una maggiore efficienza e miglior organizzazione dei singoli istituti, dopo aver bloccato qualunque accenno ad una possibile progressione economica che sia separata dall’istituto collettivistico della incentivazione e affidata a forme di valutazione esterna della qualità dell’insegnamento, il sindacato della scuola – sempre più assediato dalle pressioni del mondo economico e culturale – rischia di rimanere il primo, il principale, il più forte ostacolo e freno verso l’ammodernamento e la riforma dell’Istruzione. Ma il Paese non può più permetterselo.

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