Nel 1341 Gian Galeazzo Visconti inaugurò i lavori per la costruzione della cattedrale di Pavia, magnifico esempio di gotico lombardo, forse il più rappresentativo; la costruzione terminò ottantasette anni dopo, nel 1461. 

Sono momenti instabili questi. Momenti nei quali non si è sicuri che una proposta di legge fatta un certo giorno sia confermata in quello dopo. E quand’anche una riforma diventi legge non c’è affatto garanzia che quella stessa legge non venga snaturata o capovolta da lì a qualche anno, se non qualche mese. Nella mia realtà di lavoro, l’università, questa instabilità è accentuatissima: negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a tante e tali mutazioni normative da trovarci di fronte a situazioni paradossali, veri e propri mostri burocratici come facoltà nelle quali sono attivi contemporaneamente corsi di studi di tre ordinamenti didattici diversi. Come se in uno singolo stato, contemporaneamente, qualche cittadino fosse sotto un regime monarchico, altri sotto uno repubblicano, altri ancora diventino all’improvviso stranieri. E non va meglio per la scuola, dove si sono viste trasformazioni di ogni tipo iniziare, spegnersi e sovrapporsi ad altre senza nemmeno aver il tempo di finire un ciclo.



Cosa c’entra con tutto questo la cattedrale di Pavia? C’entra tantissimo. Non ci avevo evidentemente mai fatto caso a quella scritta all’entrata della mia chiesa parrocchiale, ma il contrasto con l’instabilità che stiamo percependo in questi giorni me l’ha fatta saltare all’occhio nitida e soprendente. Come non notare che quando nel medioevo una comunità si imbarcava nell’impresa della costruzione di una cattedrale aveva praticamente una sola certezza: che chi iniziava i lavori non ne avrebbe mai visto la conclusione né avrebbe goduto dei vantaggi. Perché le persone lavoravano allora? Anzi, per chi lavoravano? Certamente per se stesse, per sbarcare il lunario: carpentieri, operai, architetti, manovali e tutta la comunità che gravitava intorno alla realizzazione della cattedrale, spesso il cantiere maggiore della città, lavoravano – è evidente – per guadagnarsi da vivere; ma tutto questo non basta a spiegare quello sforzo collettivo anche perché oltre alle persone che lavoravano direttamente alla cattedrale c’erano alle spalle gli investimenti di chi deteneva il potere e, ovviamente, l’approvazione della comunità intera. 



E chi deteneva il potere avrebbe potuto scegliere progetti di minor durata, soprattutto se non si trattava di fortificazioni ma di luoghi “inutili” come i luoghi di culto: non erano certo obbligati a mobilitare le città talvolta per decine e decine di anni, affrontando rischi imprevedibili che potevano bloccare per sempre l’esecuzione, come accadde nel caso della cattedrale di Siena. Non occorre avere troppa fantasia intepretativa per rendersi conto che la comunità che intraprendeva questo percorso  decideva di fatto di investire a favore di chi doveva ancora nascere: il ciclo della costruzione, infatti, superava mediamente quello di una singola generazione e si protraeva verso il futuro, forse incerto ma comunque evidentemente auspicabile. La misura dell’efficacia di un’impresa, in altre parole, superava l’utile dell’individuo, si proiettava sui figli, sui discendenti.



Si capisce bene quanto profondo sia il contrasto con la situazione attuale. Non solo oggi non si accetta di lavorare per qualcuno che deve ancora venire al mondo, ma spesso, ben più prosaicamente, il ritmo che scandisce gli investimenti coincide di fatto con quello del ricambio della classe politica, se non con quello dei governi. I dati parlano chiaro: in Italia, dal 1945 a oggi, in 18 legislature, compresa la Luogotenenza e la Costituente, si sono susseguiti 64 governi con una durata media di un anno. Per verificare gli effetti di una riforma scolastica, limitandoci alla scuola dell’obbligo, occorrono invece almeno 11 anni (uno più della durata di un intero ciclo): è facile capire che se il metro è dettato dal ritmo di ricambio politico, praticamente nessuna riforma può essere seriamente proposta perché la verifica (nel bene e nel male) avrebbe scarsissime probabilità di spettare a chi l’ha progettata e fatta accettare. Quando poi si tratta di valutare l’impatto sull’impiego delle risorse disponibili la situazione diventa decisamente paradossale, per non dire imbarazzante: non ci voleva una Cassandra per capire che il decremento demografico del nostro paese a partire almeno dagli anni sessanta andava nella direzione opposta alla moltiplicazione delle sedi universitarie che sono aumentate fino a raggiungere il numero di 89 atenei presenti, tenendo conto delle sedi staccate, in 273 comuni, secondo il Miur; né serviva la cabala per rendersi conto che la generosità con la quale i politici hanno permesso alle generazioni precedenti di accedere al regime pensionistico avrebbe necessariamente messo in difficoltà quelle future.

 Questo inaspettato richiamo della storia di un edificio, dunque, ha costituito per me un’occasione unica di riflessione. Mi è chiaro ora che uno degli aspetti che generano l’instabilità del nostro mondo consiste nella pretesa che questa stabilità sia immediata e, soprattutto, che la misura della verifica siamo noi, ciascuno di noi intendo, come se il mondo fosse una proprietà assoluta e circoscritta all’individuo. Certo occorre darsi da fare per migliorare l’assetto normativo (basterebbe, ad esempio, per rimanere nel mondo universitario, ammettere la cooptazione diretta dei docenti da parte degli atenei e liberalizzare gli stipendi per generare concorrenza effettiva), ma nessuna legge può cambiare radicalmente le cose perché nessuna legge può prescrivere di amare chi non c’è ancora.  

Allora non può essere un caso che quelle cattedrali che sono fiorite ovunque in Europa, bellissime e ardite e spesso totalmente sproporzionate rispetto ai minuscoli centri urbani dove prendevano forma, non fossero semplicemente edifici grandiosi, ma fossero soprattutto il segno tangibile di un’imitazione di chi ha dato la vita per amore di chi non conosceva neppure.