Il recente Convegno che Diesse Lombardia ha dedicato al tema delle competenze/conoscenze ha segnato un punto di arrivo della discussione. E’ stato guadagnato, definitivamente, un traguardo teorico: che non c’è contrapposizione possibile tra conoscenze e competenze, se non sulla base di pregiudizi ideologici, che ripropongono antichi modelli del rapporto tra conoscenza e prassi esistenziale.



I pregiudizi hanno una spiegazione storica. Il contenuto concettuale della competenza in ambito educativo e didattico è nato nel 1949, allorché Ralph Tyler enunciò i principi, a partire dai quali si doveva costruire il curriculum formativo, nell’alveo di un’antropologia comportamentista, all’interno della quale si definivano gli obiettivi educativi quali comportamenti osservabili e misurabili. Di qui fu rapido il passaggio alla competenza come abilità e prestazione professionale misurabile. Ma già negli anni novanta si cominciò a prestare maggiore attenzione alla dimensione personale soggettiva quale componente della competenza stessa, per sua natura non misurabile: la competenza come un insieme di schemi di azione di natura cognitiva e affettiva. Con ciò si usciva dall’antropologia della sequenza “stimolo-risposta” e si sottolineava la caratteristica intenzionale e finalistica dell’agire umano. La competenza, così come è definibile oggi,  è a tre dimensioni: quella soggettiva, quella sociale-ambientale, quella “oggettiva”, l’unica che si possa tentare di misurare probabilisticamente. Donde la definizione di competenza come “la capacità di orchestrare in maniera valida ed efficace, in specifici contesti di apprendimento, un insieme abbastanza articolato e differenziato di risorse interne di natura cognitiva, affettiva e volitiva, in vista del raggiungimento di un obiettivo specifico, tenuto conto anche degli influssi che derivano da fattori di natura relazionale e sociale”.



Viceversa, continuano a convergere – per inerzia intellettuale – su una concezione riduttiva della competenza e perciò a combattere la didattica per competenze gli umanisti statal-gentiliani, di impronta licealista, per i quali la conoscenza è un nobile otium gratuito e disinteressato da tener ben lontano dal volgare negotium.

Poi vengono i seguaci del “marxismo dei bisogni”, i quali, mischiando marxismo utopico, psicanalisi e Marcuse, pensano che il lavoro sia solo alienazione e sfruttamento, benchè lo stesso K. Marx si rivolti nella tomba. Pertanto, piegare le conoscenze in direzione delle competenze significa produrre una didattica dell’alienazione, nel senso marxiano del termine. Bordeggiano questa corrente settori cattolico-personalisti, neo-marxisti inconsapevoli o immaginari, che paventano la subordinazione dell’uomo integrale all’homo economicus, costituito di interessi materiali e di consumismo selvaggio.



In realtà, la competenza è, al di là della definizione canonica contenuta nei sacri testi Ocse e Ue, una conoscenza che da strumento e attrezzo diviene modalità esistenziale dell’Io, quando studia, quando opera nel mondo, quando si relaziona, quando vive. E’ una conoscenza-logos che si incarna. Ovviamente non ogni conoscenza parcellare si trasforma in competenza. Molte conoscenze reciprocamente correlate in una totalità-sistema possono produrre una sola competenza. Lo studio delle guerre peloponnesiache può servire per passare un esame o un quiz; ed è un primo livello di utilità strumentale immediata; ma insieme ad altre conoscenze può contribuire a definire una posizione esistenziale dell’Io rispetto alla storia presente. Produce una competenza, cioè un significato più ampio di quello racchiuso nella conoscenza di un oggetto determinato. La conoscenza è “un avvenimento” soltanto se non scivola sull’epidermide dell’Io, se, appunto, “ad-venit”, se si connette al sistema esistenziale della persona. La conoscenza è un’epifania che illumina il paesaggio, solo se si connette all’Io profondo, se diviene una qualità/modalità dell’Io. Insomma: solo se diviene competenza. Il che suppone un’attesa attiva da parte dell’Io.

Tuttavia il passaggio dalla teoria corretta della competenza alla “didattica per competenze” richiede l’attivazione di alcune condizioni, senza le quali essa diviene il solito Eldorado retorico, che nessuno mai riuscirà a raggiungere. Il vocabolo “competenza” è solo uno stenogramma, allusivo a molto di più.

La prima condizione è che la personalizzazione divenga il principio ispiratore dell’azione educativa e didattica di ciascuno e di tutti gli insegnanti. Si tratta di molto di più che una tecnica didattica. Gli insegnanti devono vedere le persone che hanno davanti, le persone che apprendono. Partire da chi hanno di fronte, non dai programmi da completare, che costituiscono il mediocre, ma secolare imperativo categorico dei docenti. La diffidenza contro il principio di personalizzazione non è pedagogico-didattica, è innanzitutto filosofica. E’, infatti, ben vero che essa ha sullo sfondo una potenziale deriva nichilista: quella dell’assoluta autoreferenzialità dell’Io, che interpreta la propria libertà come “radicale estenuazione di tutti i vincoli”.

Perciò la personalizzazione è percepita come sinonimo di anarchia didattica, di libertà come licenza. Alla quale viene pertanto contrapposto il vincolo degli ordinamenti e dei programmi, non importa se la scuola sia statale o paritaria. Ora, non c’è dubbio che la Repubblica ha il dovere di indicare, in relazione agli sviluppi culturali e tecnico-scientifici del tempo presente e del futuro prossimo, i traguardi che i ragazzi devono raggiungere per diventare uomini, cittadini e lavoratori. La personalizzazione non consiste nella possibilità che ciascuno studi quel che gli pare.

Essa consiste nel condurre ciascuno, secondo la propria biografia, i propri tempi, i propri talenti verso l’acquisizione di quella tavola europea delle competenze, che sta davanti a tutti i ragazzi europei e, si potrebbe aggiungere, di tutto il mondo globalizzato. E’ emerso dal Convegno succitato che la difficoltà maggiore a costruire una didattica per competenze nei licei, rispetto ai tecnici e ai professionali, non si deve attribuire tanto al fatto che i tecnici e i professionali sarebbero culturalmente e didatticamente più orientati alle richieste del mercato del lavoro, quanto piuttosto al fatto che gli insegnanti di questi indirizzi si trovano quotidianamente confrontati con dei ragazzi che si presentano, diversamente da quelli dei licei, meno dotati sul piano del capitale culturale e sociale di origine, e pertanto più bisognosi di uno sguardo personalizzato.

La possibilità che gli insegnanti hanno di farsi ascoltare è più bassa negli indirizzi tradizionalmente considerati culturalmente più bassi e pertanto la necessità di farsi ascoltare aguzza il loro ingegno e la loro professionalità, li spinge ad ascoltare chi hanno di fronte. Guardare per essere guardati. Ed è l’ascolto che spiana la strada alla didattica per competenze.

E qui scatta la seconda condizione: la personalizzazione non è una partita che si gioca nel rapporto individuale tra singolo insegnante e singolo alunno. Essa richiede la costruzione di una rete comunitaria di insegnanti attorno a ciascun ragazzo: la comunità professionale educante. Ciascun insegnante accumula un pezzo di conoscenza storica della vicenda esistenziale, intellettuale, affettiva dell’alunno e ciascun insegnante consegna un pezzo del patrimonio culturale e cognitivo dell’umanità. La personalizzazione trasforma le tessere del puzzle in un mosaico coerente. E questo non è un lavoro che il docente fa da solo, chiuso nella solitudine della sua classe.

Il raggiungimento da parte dell’alunno delle competenze richieste e il loro accertamento non si realizza in una “repubblica di unici”, qual è mediamente quella dei Consigli di classe. Occorre un’osservazione quotidiana, “da uomo a uomo”, che accompagni, perché vi partecipa, il percorso esistenziale del ragazzo; anzi: “da uomini a uomo”. Nonostante passino davanti al ragazzo ogni giorno molte figure adulte, ciascuna con il proprio lascito da consegnare, nonostante le sue ore siano molto affollate, egli nuota in una sostanziale solitudine, madre di molti disagi e di parecchie anomie, da cui non sempre lo mette al riparo la presenza dei pari. 

Personalizzazione e comunità professionale bastano a generare competenze? Occorrono istituti ad hoc per proseguire su questa strada: il tutor e il portfolio, nella duplice versione formativa e certificativa, la riduzione delle materie al core curriculum, la revisione radicale dell’organizzazione tayloristica delle materie e della didattica. Ma poiché questi passi non saranno mai fatti dal centralismo statale-amministrativo vigente, ma sempre meno vivente, solo la messa in movimento di una nuova soggettività comunitario-professionale degli insegnanti sarà in grado di generare le forze motrici del cambiamento. Qui si saldano strettamente i temi della “didattica di cattedra” con quelli politico-istituzionali.

Molti insegnanti vivono nell’illusione che basti essere solitariamente bravi e missionariamente motivati sulla cattedra per cambiare la scuola. Alcuni teorizzano persino che non è loro compito cambiare la scuola. Eppure, se la scuola non cambia, i ragazzi che hanno di fronte sono destinati allo scacco. Così la didattica si trasforma in una fuga dalle proprie responsabilità professionali, umane e civili. Su questo punto di intersezione, che il Convegno ha istituito, si radica il ruolo culturale, civile, politico delle Associazioni professionali degli insegnanti, tra le quali Diesse. Dunque: “Ce n’est q’un début! Continuons le combat!”.