Tradurre per imparare una lingua… Esito a intervenire su un tema così complesso. E so già di rischiare di ripetere punti di vista rappresentati più adeguatamente da altri.
Che cosa si “traduce”? La traduzione è un “trasferimento”? Di che cosa? Distinguerei subito fra un’interpretazione di un testo e l’espressione di un’interpretazione di un testo. Sia la prima sia la seconda sono ipotesi, sono scommesse: a interpretare il testo è un lettore – destinatario. Nel secondo caso, il destinatario diventa mittente di un testo, che nasce a ridosso di un testo già esistente. I due testi non si equivalgono: il secondo presuppone il primo, ma non vale l’inverso. Il nuovo testo si può elaborare nella lingua che è servita per elaborare il primo (una traduzione endolinguistica); oppure, si può ricorrere ad altra lingua o anche a elementi di un sistema segnico di altro tipo (una traduzione intersemiotica). Si è soliti attribuire la qualità di “traduzione” a una dinamica interlinguistica: il testo “tradotto” è costruito con gli strumenti di una lingua diversa da quella che si manifesta nel testo di partenza.
Per tradurre un testo, bisogna averlo interpretato. Che cosa si può intendere per “interpretazione”? Dipende dai testi. Vi sono testi che limitano le scelte – e sono soprattutto testi scientifici, ma anche saggi e commenti, cronache e narrazioni di avvenimenti. Anche in questi casi, tuttavia, vi è una sfida interpretativa, che tuttavia si risolve là dove si riesca a ricostruire il “mondo” del testo (per esempio, il contesto pertinente, il punto di vista dell’autore e il tipo di destinatario cui viene rivolto il messaggio, e altri elementi, a seconda del caso concreto). Vi sono poi testi, per lo più annoverati in un canone (letterario, filosofico, religioso…), che sfidano il pubblico a scegliere fra più interpretazioni: non di rado, il destinatario si confronta con una formulazione intenzionalmente vaga (indeterminata) o ambigua; altre volte, la lettura si compie alla luce di scelte interpretative già compiute all’interno di una tradizione, che solo a prezzo di ulteriore esame si può mettere in discussione.
Un testo impone ai suoi lettori di trovare la chiave d’accesso all’esperienza che lo ha generato. Se quest’ultima non è immediatamente evidente (anche perché, di solito, è posta in uno spazio/tempo lontano), potrà venire rappresentata per ipotesi – per una scommessa. Più l’ipotesi è forte, più l’interpretazione è solida, ma anche in tale caso è suscettibile di verifica e di riformulazione.
Se il lavoro interpretativo è così impegnativo, che dire di una “traduzione”? Questa si compie a ridosso di un’interpretazione e presuppone che l’interprete – a sua volta autore – sappia anche dominare le strutture di due lingue e sappia costruire uno spazio di mediazione fra le strutture di queste due lingue. È evidente che non si dà traduzione senza una competenza plurilingue, ma ancor più chiaro è che non si può tradurre se non si è compreso il testo di partenza. E come si fa a comprenderlo? Si deve subito tradurlo o è preferibile riflettere sul testo prima di affrontare la traduzione? In altri termini: è possibile interpretare (comprendere) un testo senza riflettere su come possa venir tradotto? È possibile leggere Cicerone da “latini” invece che da italiani?
Direi che si può e, anzi, si deve osare. Ma per leggere da latini, bisogna comprendere il latino. E si comprende il latino se lo si accosta come una lingua viva. Viva per l’epoca e per i contesti in cui è usata. Per questo, è necessario che ci si immedesimi in chi usava o usa il latino come lingua per redigere testi.
Durante una lezione, un mio insegnante di latino lesse, a voce alta, un passo di una Catilinaria: “Egredere aliquando ex urbe, Catilina. Patent portae. Proficiscere. Educ tecum etiam omnes tuos. Purga urbem”. Non ci fu bisogno di tradurre per una prima comprensione. Ci fu bisogno di un lungo commento per rendere il senso che tali parole potevano avere per un contemporaneo di Cicerone. Fummo invitati a immaginarci ascoltatori del grande avvocato di Arpino. Fu un “di-vert-imento” autentico e servì a noi per imparare ad accostare un testo così particolare e “compromesso” con la sua epoca. Ogni traduzione avrebbe impoverito la “vis” di quel brano. Eppure, una prima versione – senza la pretesa di essere una traduzione stricto sensu – può servire come strumento per una comprensione provvisoria di ogni parola, sia per quanto riguarda la struttura morfologica sia per l’apporto della parte al senso complessivo.
Si traduce per meglio comprendere (meglio: per avanzare un’ipotesi interpretativa), ma si deve comprendere per meglio tradurre. Non è tuttavia un circolo, ma un movimento a spirale ascendente. Dapprima si fa un’analisi linguistica e nell’analisi si usa una lingua per descrivere le strutture di un’altra; poi si accede a una prima comprensione, che impone il ritorno sul testo di partenza; in seguito, si elabora un testo di arrivo, impiegando un’altra lingua. Quest’ultima potrebbe essere anche diversa dalla lingua usata per fare l’analisi iniziale (potrei usare l’italiano per una prima comprensione di un testo latino, che poi rendo in un testo tedesco…).
Dunque, non si può tradurre senza aver prima inteso. Tuttavia, si può comprendere senza riuscire a tradurre o facendo molta fatica a tradurre. La competenza plurilingue non annovera la competenza traduttiva. Chi vi sta scrivendo comprende qualsiasi testo redatto nel tedesco dell’uso comune – e lo stesso vale per analoghi testi in italiano. Tuttavia, trova faticoso tradurre quel testo dal tedesco in italiano. Per me, è uno sforzo inutile: comprendo meglio il tedesco “pensando da tedesco”. Se tuttavia devo spiegare il testo a chi non sappia il tedesco, mi è inevitabile il ricorso a una traduzione; ma so già in partenza di non riuscire a rendere quello che, per me, è il senso del testo originale. Non si nasce traduttori. La traduzione non è un’attività naturale. Naturale è il plurilinguismo. Sapere una lingua vuol dire sapere com’è usata e sapere usarla. Non significa saper descrivere la grammatica, ma saper produrre espressioni congrue sia per la grammatica sia per la pragmatica – cioè saper formare espressioni adeguate ai contesti d’uso. Per saper far questo, non occorre essere traduttori.
Nel caso del greco o del latino – ma anche del sanscrito, dello slavo ecclesiastico o del gotico – pare che i requisiti posti dall’insegnamento scolastico siano di tipo metalinguistico: sapere queste lingue è inteso come un sapere la grammatica (morfologia, sintassi, struttura del lessico). Per alcuni (ma non per i lettori di questo articolo, mi auguro) saper produrre frasi in latino è ritenuto importante, ma limitatamente alla capacità di formare esempi che servano a illustrare aspetti della grammatica oppure saper citare passi di autori, meglio se della lingua “aurea”. Per il latino, si pensa che basti saper la grammatica e saper leggere e tradurre. La pragmatica “non c’entra”: a usare il latino come una lingua viva, i poveri scolari faticherebbero troppo, si dice presso alcuni. Così però si studiano le lingue, ma non le si apprendono come lingue: si studia solo la grammatica di una lingua e si impara a tradurre alla bell’e meglio.
Tuttavia, per riflettere su una lingua, la traduzione serve: è strumento per un lavoro in itinere, ma questo non è lo scopo dello studio del testo – lo scopo è la comprensione del “mondo” e l’arricchimento della propria esperienza culturale e umana. E in quest’esperienza potrebbe ben rientrare il tentativo di redigere testi in latino (o in greco). I vocabolari, qui, servono fino a un certo punto: è più utile, e divertente, leggere e analizzare testi e, dai testi, attingere per costruire altri testi. Si può iniziare da opere del latino moderno, che sono più semplici; oppure si può attingere all’immensa ricchezza del latino medievale. Una volta acquisita familiarità con le testualità più accessibili ai contemporanei, si va a ritroso e si accede al latino classico. Imparare senza tanti vocabolari: è una fatica, ma è molto “rewarding”. E, visto che nelle scuole si apprendono (o si dovrebbero apprendere…) anche le lingue contemporanee, forse è meno faticoso apprendere il latino come una qualsiasi altra lingua.
Se però si ritiene che l’impresa sia scandalosa e stolta, si continui almeno a tradurre onestamente, come si fa ora: è un’occasione per respirare latinità. Con o senza l’aiuto della traduzione, serve un confronto con il testo latino originale: è la via più ragionevole per accedere alla comprensione di un mondo che si manifesta in un testo. Non mi pare sensato abbandonare il latino e la traduzione come ausilio del testo originale, somministrando agli studenti un acquoso “brodino” in italiano (o in “italiese”). Uno studente serio potrebbe protestare, ricordando che ogni limite ha una pazienza. A meno che non si desideri orientare gli studenti verso le nanotecnologie e la bioingegneria, distogliendoli per sempre dal mondo classico, reso “palloso” dalla scuola.