Con questo secondo articolo l’autore continua la sua riflessione sullo stato attuale dell’insegnamento della cultura classica a scuola, con particolare riferimento al latino. Il contributo è un approfondimento al dibattito, in corso, sul senso del tradurre a scuola.

Per comprendere la portata del problema posto in chiusura della puntata precedente, ritengo necessario mostrare, seppur sommariamente, la grottesca sproporzione esistente tra l’immagine della latinità che la scuola superiore perpetua nella communis opinio e quale a mio avviso è, invece, la sua realtà di fatto, storica e letteraria, in una parola culturale.



La letteratura latina non coincide con la letteratura di Roma, e unico caso nella storia delle letterature euro-occidentali costituisce un corpus di testi che sono in relazione su un arco temporale immenso (dal V sec. a.C. fino almeno alla metà del 1800, come attestano per esempio i panegirici latini dei poeti della corte asburgica, intrisi di memorie poetiche classiche come Virgilio, Orazio, Ovidio, ecc., o in paragone strutturale con i panegirici di epoca imperiale e tardo antica), che abbraccia quindi non solo enormi mutamenti storici, ma anche un gran numero di popolazioni per cui il latino non fu mai o non fu più la lingua madre. Si pensi per esempio agli scrittori di lingua greca che produssero in latino, come il siriaco Ammiano Marcellino, senza ovviamente dimenticare che il cosiddetto iniziatore della produzione letteraria in Roma antica, fu il greco romanizzato Livio Andronico. Unico caso nella storia dell’uomo, la lingua latina consente oggi al suo studioso di essere “contemporaneo” tanto di Ennio, quanto di Pascoli, e concittadino dello spagnolo Lucano, come dell’africano Minucio Felice, del franco Alano di Lille, del fiorentino Dante, dell’olandese Erasmo, dell’inglese Newton, del tedesco Karl Marx, che scrisse la propria “tesina di maturità” in latino, ecc.



A fronte di questa situazione la scuola continua a diffondere l’idea che la lingua a la cultura latina si spingano al massimo fino al II sec. d.C. con Tacito e Svetonio, dopo i quali si protrarrebbe una “crisi” indefinita, i testi non sarebbero più scritti in latino, e niente sarebbe letterariamente degno di essere letto. Tale vulgata che assume acriticamente – e invero però un po’ anche strapazzandola e distorcendola – la visione dell’impero romano che fu di E. Gibbon, si completa con la considerazione che da qualche parte in questa interminabile crisi sarebbe incominciato il Medioevo anche in letteratura, intendendo con ciò l’ingresso della cultura cristiana nella produzione scritta in latino, e quindi per se non interessante, linguisticamente corrotta, se non ideologicamente pericolosa. 



Seguirebbe quindi un “buio” Medioevo, in cui per mille anni (1000!) non viene prodotto nulla che sia degno di essere letto, fino alla nascita come per incanto delle letterature volgari, e Dante. Sì, certo si dice qua e là con fare erudito che ci sono dei modelli latini, che nessuno però conosce e di cui si deve solo fare lo sforzo mnemonico del nozionismo. E così un povero studente non capirà mai che cosa intercorre tra il De consolatione Philosophiae di Boezio (VI sec. in.) e la Rhetorica Novissima di Boncompagno da Signa o l’Anticlaudianus di Alano (XII sec.), per stare alle più diffuse menzioni erudite da manuale di Letteratura italiana di terza superiore.

Questa visione della storia, della cultura e della letteratura europea poggia tutta sulla lettura ideologica dell’umanesimo-rinascimento, data dall’epoca illuminista e romantica, che è stata la vera epoca della rottura col passato, in cui si è prodotta la progressiva separazione dalla tradizione letteraria latina nel suo complesso, salvando da essa solo la letteratura grosso modo tra Cesare e Tacito; appunto. La giustificazione veniva dalla lettura ideologica dell’umanesimo e della sua riscoperta dei “classici”, dimenticando che la polemica con i tardo scolastici e gli averroisti di Padova verteva principalmente sul canone linguistico da adottare, e che i più grandi umanisti avevano confidenza tanto con Cicerone che con Agostino, con Virgilio e Prudenzio o Venanzio Fortunato ecc.

Questa visione “(pseudo-)filologica” si impose da ultimo massivamente con i Ginnasi di impronta idealistica, tedeschi prima e italiani poi. Il resto andava bene per chi si occupava del latino della messa o dei preti, con senso ovviamente dispregiativo. Il risultato oggi – e tralascio le implicazioni culturali del dopo sessantotto, della caduta libera della qualità e quantità degli studi umanistici in generale e nei licei in particolare (ovviamente riflesso degli insegnanti formati da una certa università) – è che un ragazzo saprà citare (forse…) Appio Claudio Cieco, Cincio Alimento e Fabio Pittore, di cui non rimane nulla o quasi, e non avrà mai letto una sola pagina di Agostino, di Boezio, di cui forse a stento ha incontrato i nomi, mentre sicuramente non saprà dell’esistenza di Cassiodoro, Isidoro di Siviglia, né di Beda e della sua “Storia”. Né, per fare ancora qualche esempio, potrà avere coscienza del fatto che i Dialoghi di Gregorio Magno ebbero un’immensa fortuna nel mondo di lingua greca, tanto da ricevere l’appellativo di Gregórios, ho diálogos, o che il vescovo Ambrogio è tutt’oggi conosciuto e stimato nella cultura ortodossa greca e russa, per la sua produzione di inni.

Ovviamente nessuno dice che questi autori e non i primi citati hanno svolto un ruolo immenso nel corso della storia europea anche nel rapporto con le letterature nazionali. E che sono esistiti generi letterari nati in quella famigerata età di crisi, fioriti poi lungo il corso di 1500 anni e infine scomparsi, guarda caso, proprio tra la metà del ’700 e l’800, come per esempio la cosiddetta “epica biblica” nata nel 330 con lo spagnolo Giovenco – tra le letture canoniche, tanto di un Petrarca [Ecloga 10, vv. 311-325] (ma qualcuno a scuola ha mai letto la sua assai più vasta e, ai suoi stessi occhi, più importante produzione latina?), che di un Erasmo (altro autore ‘latino’ ignorato) – e continuata in lingua nazionale p. es. da Milton.

Si ha pertanto la (vaga?) sensazione che nel corso degli ultimi 200 anni in Europa l’istruzione formalizzata in mano agli stati nazionali abbia operato una precisa selezione del “passato”, eliminando tutto ciò che non entrava nel letto di Procuste di una ragione razionalistica, laicista e positivistica. Noi postmoderni, che veniamo dopo, spesso scopriamo intere “civiltà sepolte” come atlantidi riemerse, se va bene in studi specialistici postuniversitari. La lingua latina è stata pertanto il medium linguistico di una cultura “paterna” – riprendo una meravigliosa intuizione terminologica e culturale dal dossier di Linea Tempo, 15, 2001 – trasmessa cioè per via magisteriale, autorale e istituzionale che ha co-formato la civiltà occidentale, insieme alle di volta in volta native culture “materne”, come le lingue che le esprimevano.

Ma il latino è anche stata la forma linguistica di un universalismo culturale, religioso e talvolta anche politico. E questo, a mio avviso, è il vero nemico contro cui si è scagliata la modernità. Il latino è stata la lingua dell’unità politica romana del Mediterraneo, quindi dell’unità religiosa della sua pars occidentis, quindi anche della temporanea nuova unità politica dell’Europa e infine comunque e sempre ininterrottamente la lingua internazionale della cultura fino all’età moderna. La lingua e la cultura latina sono state per moltissimo tempo iperonime delle lingue e delle culture nazionali europee e quindi inevitabile punto di confronto. Qualcuno si ricorda che formazione hanno avuto ancora i nostri massimi scrittori dell’800, Leopardi e Manzoni? O un modernissimo come Pascoli? Dunque fino al XVIII sec. la lingua e cultura latina hanno svolto una funzione essenziale, per quanto variamente espressa nelle diverse epoche, sul piano della generazione e circolazione della cultura.

Da allora rapidamente si è consumata una clamorosa rottura, anch’essa variamente interpretata ed espressa, ma che, comunque sia, oggi nega agli europei la coscienza di una cultura identitaria. E uno che non ha coscienza di sé come origine e come identità è facile preda di qualunque forma di potere.

 

(2 – continua)

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