Quarto e ultimo articolo dell’autore dedicato all’insegnamento della cultura classica. Il contributo è un approfondimento del dibattito sul senso del tradurre a scuola. Qui il primo, il secondo e il terzo articolo.
Se c’è un’ipotesi che la frequentazione con le lettere, l’arte poetica diremmo con Aristotele, ci ha insegnato, è che il segno letterario è per sé foriero di una conoscenza superiore a quella pur rilevantissima data dalla historìe: esso dice “le cose che potrebbero essere” (Aristotele, Poetica, 1451a-1451ß). Così la pensava anche il nostro grande Manzoni, come attesta l’elaborata invenzione “dell’invenzione” all’inizio del suo romanzo, che ci rassicura sul fatto che l’Historia al massimo può schierare gli anni “già fatti cadaueri”. Dall’arte poetica, invece, possiamo aspettarci che ci riconsegni nel presente una tradizione possibile. Basta che ci sia qualcuno che la voglia raccogliere. Con questa prospettiva – se a questo punto il lettore sarà ancora disposto a seguirci – mi accingo a riproporre l’insegnamento della cultura latina antica, medievale, umanistica e moderna, cominciando con la raccomandazione duplice per una valida educazione delle giovani generazioni, ovvero che il maestro sappia innanzitutto “proporre adeguatamente il passato” e fare ciò “dentro un vissuto presente”, poiché il problema del rapporto col passato non è una questione relegabile in un museo o nella riserva indiana di fissati antichisti, bensì il problema principale nel rapporto generativo-educativo tra le generazioni.
A) Adeguatamente: della qualità e quantità. Partiamo dalla considerazione che se oggi c’è ancora qualcuno disposto a credere che l’immenso patrimonio culturale dell’Europa – espresso per due millenni innanzitutto, solo, per lo più, o “anche” in lingua latina – non debba andare perduto, ancora meno sono quelli che ritengono che l’adeguata competenza linguistica sia davvero necessaria. Siamo sufficientemente ricchi e beneabituati da accontentarci delle (dove ci sono!) traduzioni: esse possono essere sì delle “tradizioni” ma anche dei “tradimenti”. Prerequisito fondamentale, infatti, per la costruzione di una visione se non ideologica almeno già preconfezionata di una cultura, è che il grande pubblico ignori le chiavi d’accesso di mondi espressi in altre lingue. Vale oggi per vaste regioni del mondo che non possono accedere a fonti di informazione estere, come per la visione che un occidentale medio può avere dell’intera cultura di derivazione greco-latina.
La mediazione di avanguardie intellettuali, leniniste o gramsciane, non saprei, diventa indispensabile. Oggi possono avere anche il volto di romanzetti che spopolano agli autogrill, e vengono recepiti con il sussiego fiducioso che si tributa ad autorità universalmente riconosciute. Quella fiducia che non si vuole più avere per le fonti originali, viene acriticamente regalata in gran quantità al parto della fantasia di qualche scrittore di cassetta. A chi per esempio sbandiera con tronfia sicumera l’operazione critica del Valla nei confronti della famigerata “donazione”, chiederei se ha altrettanta competenza linguistica del dotto umanista, solo in forza della quale il Lorenzo è pervenuto al risultato che tutti oggi gli riconoscono. Se dunque la cultura latina ha delle ragioni uniche, storiche, “paterne” per noi italiani ed europei, e – corro il rischio dell’infamia – forse anche universali, per essere non solo non trascurata, ma conosciuta a fondo, nella sua complessità e articolazione, la competenza linguistica diffusa sarebbe l’opzione più “democratica”. Dare a tutti coloro che vogliono la possibilità del rapporto diretto. Ma è oggi davvero un obiettivo possibile?
B) Adeguatamente: del modo. Se un atteggiamento realista ci suggerisce facilmente che il metodo di conoscenza di un oggetto è imposto dall’oggetto stesso, e il latino è innanzitutto una lingua storico-naturale, non dovrebbe essere difficile pensare che l’unico metodo ragionevole per il suo apprendimento sia quello di qualunque altra lingua storico-naturale. Applicato alle lingue classiche si chiama metodo natura la cui spiegazione e motivazione è già stata ampiamente sviluppata lungo tutto il corso del ’900; basta avere la pazienza di andare a cercare e di leggere. Ma se qualcuno anche accetta questo semplice sillogismo, si arresta poi al topos della “lingua morta”. Della scorrettezza concettuale, si è già detto precedentemente, della reale situazione attuale, resta da dire. Innanzitutto esistono, ovviamente con gradi di competenza diversi, in diverse parti del pianeta soggetti in grado di produrre “atti linguistici”, in forma orale e scritta, in latino. Esiste cioè in qualche misura una “comunità di parlanti” latino. Esistono poi diverse istituzioni, scuole e accademie , circoli locali e internazionali, stazioni radiofoniche e circoli culturali che faticosamente alimentano il Latino “vivo”.
Qualcuno, quindi, dalla cui “bocca” è possibile riprendere la trasmissione diretta della lingua, esiste. Occorre avere il desiderio e l’umiltà di tornare ad imparare quello che si credeva già di sapere. Come ognun sa, la cosa più difficile. E qui forse giova ricordare che nella conoscenza gioca necessariamente la moralità del singolo. La discussione a riguardo della possibilità ed efficacia del metodo natura mi sembra un problema analogo alla scoperta dei microorganismi da parte di Pasteur: un problema di moralità nella conoscenza. Certo, non si troverà ovunque il latino ciceroniano, ma perché mai si dovrebbe? Certamente, poi, occorre oggi uno sforzo maggiore, perché il fossato è stato scavato e le possibilità di questo apprendimento sono percentualmente ridotte. Tuttavia la possibilità esiste: fosse anche che nessuno oggi sia più in grado di produrre atti linguistici in latino, esiste l’immenso corpus testuale, con abbondanza di manuali e strumenti didattici prodotti, come si è già detto, a partire dal III sec. d.C., fino al recente validissimo manuale di H. H. Ørberg.
Ora come allora la possibilità di apprendere il latino dalla “voce” degli scrittori esiste. Se a ciascuno fosse data la possibilità dei rudimenta latinitatis, che costituiscano la chiave di accesso minima ai testi, poi potrà decidere autonomamente a quale livello di raffinatezza lessicale, stilistica e retorica vuol progredire. Sarei davvero curioso di vedere quanti aprioristici detrattori del metodo natura raggiungerebbero in proprio i raffinati livelli della concinnitas ciceroniana, la cui assenza imputano all’apprendimento in età scolare.
Credo che un raffronto con l’apprendimento delle lingue straniere nelle superiori, gioverebbe: ci scandalizza che un ragazzo dopo “solo” due anni di studio secondo il metodo natura sia in grado “solo” di leggere Catullo senza vocabolario e di produrre in forma orale o scritta brevi testi, come riassunti o descrizioni, e magari non conosca a memoria tutti i segreti del periodo ipotetico né sappia utilizzare con proprietà retorica i congiuntivi indipendenti. Ma avete mai provato ad ascoltare un esame di maturità o a leggere una terza prova in inglese? Vogliamo parlare poi dell’italiano, lingua che alla maturità i ragazzi per lo più hanno frequentato da 18 (!) anni?
C) Dentro un vissuto presente: o della tradizione “viva”. Ve lo immaginereste un maestro di pittura che sapesse spiegare ai suoi alunni tutti gli aspetti fisico-chimici dei colori e della luce e non sapesse tenere in mano un pennello? O un maestro di violino per cui la “scienza del suono” non avesse segreti ma che non sapesse come si prende in mano lo strumento? E un insegnante di lingua tedesca che sapesse spiegare le regole delle desinenze degli aggettivi, ma non fosse in grado di pronunciare una sola semplice frase concordando correttamente? Perché allora diamo per ovvio, scontato che così debba essere per un insegnante di latino? Se sa ripetere le tabelle grammaticali riportate sul manuale e sa fare l’analisi logica e la “costruzione” della frase (sic!), se sa prepararsi sulle note dell’edizione dell’autore che leggerà in classe, dissimulando poi davanti agli alunni abilmente tale esercizio, lo riteniamo un insegnante preparato.
La cosa importante è che “faccia fare” le versioni. Pretendendo dai suoi studenti alle primissime armi, quella precisione di interpretazione linguistico-grammaticale, retorica e stilistica che lui magari si è conquistato dopo anni di letture e traduzioni di testi. Mentre nelle prime classi il collega di inglese, che spesso tra l’altro può appoggiarsi ad una già acquisita minima competenza linguistica, non si sognerebbe mai di dare da tradurre un brano di autore del ’600, per la complessità linguistica e la distanza culturale, il collega di latino si irrita perché i suoi studenti non hanno saputo riconoscere e rendere correttamente il senso letterale e letterario di un passo, decontestualizzato e ritagliato, di Cesare, distante dall’ignaro studente più di duemila anni. Forse noi che abbiamo ricevuto per una decina d’anni una formazione tutta impostata sul metodo grammaticale traduttivo non raggiungeremo se non dopo molto tempo la perizia e la “scioltezza” di chi magari ha avuto la fortuna di cominciare da subito con il metodo natura. Ma perché non provare?
Se non saremo bravi noi, lo potranno essere i nostri alunni. Quale soddisfazione più grande che quella di vederci superati dai nostri discepoli? Ciò che ora appare morto può tornare a vivere. Se trova qualcuno che è disposto a prestargli la sua viva voce. Come un musicista che rende vivo e presente ciò che altrimenti sarebbe lettera morta. Se quindi la lingua e la cultura latina sono vive per e nel maestro, lo potranno essere anche per le future generazioni.