Da qualche anno, a proposito dell’andamento delle iscrizioni delle famiglie italiane ai diversi filoni della istruzione superiore, il primo dato che si analizza è quello dello stato dei rapporti di forza fra formazione generalista e formazione per il lavoro.

Mentre negli anni passati l’arretramento di quest’ultima era stato costante, oggi sembra si sia arrestato e sembra essere iniziata una lieve rimonta, grazie soprattutto al +1,5 dell’istruzione professionale, in particolare nel settore alberghiero ed enogastronomico. Lo stato dei dati e la situazione ingarbugliata delle diverse legislazioni regionali non consentono di capire chiaramente se questo incremento è avvenuto nei percorsi quinquennali (di fatto una versione povera dei tecnici) oppure nei percorsi triennali che possono dall’anno scorso essere erogati o dai Cfp o dagli istituti professionali con corsi appositi triennali di impianto regionale o infine dagli istituti professionali  all’interno dei percorsi quinquennali,come avviene nella maggior parte delle regioni soprattutto del Centro-Sud.



Non si può definire esaltante infatti – nonostante gli sforzi in proposito di Confindustria – l’incremento dello 0,4% dell’istruzione tecnica. Anche perché esso risulta da un ulteriore arretramento dell’istruzione commerciale e da un miglioramento invece della formazione più tradizionalmente industriale che ha evidentemente ridrenato parte delle iscrizioni dei licei delle scienze applicate (-1,5%). Non sembra da ritenere un fatto positivo questo rapporto rovesciato rispetto ai decenni precedenti, che avevano invece visto l’atrofizzarsi ed il crescente deterioramento degli Itis a fronte dei prepotenti afflussi agli Itc che costituivano il motore dell’innovazione di tutta la scuola superiore. In un paese come l’Italia, considerare i servizi come parassitari è un errore di prospettiva e ne è prova il fatto che la domanda di imprese e pubblico continua, ma sembrano esserne consapevoli solo gli strati superiori dei non autoctoni, che hanno cominciato a colmare i vuoti dei locali.



I ceti sociali ed i generi che incrementano rispettivamente Itis ed Itc sono infatti diversi. La piccola media borghesia che aveva inviato i suoi rampolli alle scuole di ragioneria fino agli anni 70 – tanto è vero che oggi ci si accorge con un certo stupore che membri della classe dirigente dell’epoca ne provenivano – oggi sembra avere volto le sue aspirazioni altrove.

Ed anche l’erosione della base numerica dei licei scientifici (-0,6%), delle scienze applicate (-1,5%) e classici (-0,2%) va nella stessa direzione.

Ambedue queste tendenze infatti segnalano un flusso di iscrizioni a favore di una licealità non storica, che riscuote i suoi consensi all’interno delle stesse fasce sociali piccolo-medio borghesi che finora si erano orientate o verso la formazione tecnico-commerciale o, nei loro elementi più promettenti, verso la licealità tradizionale (subendone magari pesanti respingimenti, forse causa ultima del rifluire verso gli Itis).



Così assistiamo da anni ad una lievitazione del liceo artistico (+0,2%) che sta mutando la propria identità. Da luogo specializzato e prezioso nel quale si coltivavano talenti in erba (con troppo poca cultura generale però), sembra essere divenuto il luogo di coltura di tutta la diversità e la aspirante creatività di un paese fantasioso come il nostro. E visto che, a partire dalla pubblicità, trionfa oggi l’esaltazione di chi non segue le regole, dopo averle peraltro imparate tutte, pare che il messaggio sia stato ben recepito.

Ed è da sperarsi che la ancor più significativa lievitazione (+0,6%) del liceo linguistico aiuti ad innalzare il livello delle competenze linguistiche dei giovani italiani che, nel loro complesso, non sembrano aver tratto giovamento dal notevole aumento che negli ultimi decenni il legislatore aveva disposto per le ore di lingue straniere nei piani di studio. E che questo liceo non si trasformi in una versione di massa del liceo per signorine, già in auge nella Milano negli anni 50.

Ed è altrettanto auspicabile che il liceo delle scienze umane (che tiene con uno -0,1%), giustamente orbato di una immediata finalizzazione magistrale (che però, almeno dal punto di vista delle formazione del singolo, rendeva più solidi quegli studi) non divenga una corsia obbligata verso i lidi professionali indefiniti che si profilano dopo le inevitabili prosecuzioni universitarie in Scienze della formazione e della comunicazione.

Si spera anche che dalla costola del liceo economico sociale che fatica a decollare  nasca un liceo economico vero, che si affianchi ai nostri tradizionali classico e scientifico. I quali – si è visto sopra – non stanno troppo bene, dovendo subire la concorrenza di una licealità meno arcigna, se non più “leggera”, che garantisce l’ambita coccarda di liceali senza dover pagare troppi dazi.

Credere che la famiglie scelgano principalmente dopo una ponderata valutazione dei diversi piani di studio sarebbe ingenuo. La scelta degli studi per i figli in realtà si gioca sulle ipotesi di collocazione sul lavoro ma soprattutto, in tempi di vacche grasse,  sul prestigio sociale. Gli apporti cognitivi attesi non sono, ahimè, così importanti in una paese come il nostro in cui la scarsa mobilità sociale non si basa sul merito scolastico come in Francia, ma sulla appartenenza.

Aprendo una parentesi, andrebbe valutato accuratamente questo aspetto da parte di chi teme che la pubblicità dei risultati delle prove del Servizio Nazionale di Valutazione spingerebbe alla polarizzazione ed alla gerarchizzazione sociale nelle scelte delle scuole. Le famiglie, non solo italiane, scelgono le scuole private o le pubbliche di élite non solo o non tanto perché vi si impara di più, ma per la frequentazione dei pari sociali e per la ampiezza ed il livello dell’offerta formativa complessiva. Ciò sembra valere (Ocse-Pisa 2009, Focus n.7) anche nelle nazioni in cui il livello degli apprendimenti ha un valore predittivo più alto che in Italia rispetto alla futura collocazione lavorativa e sociale.

Perciò il futuro del liceo delle scienze applicate e del liceo dell’economia e delle scienze sociali si giocherà su questo piano, più che sul numero di ore delle diverse materie. E, dal punto di vista della sua utilità sociale, andrebbe anche valutato l’impatto della licealità italiana.

La licealità italiana è basata sulle humanities, direbbero gli anglosassoni, coerentemente all’ipotesi che sia utile che il ceto dirigente abbia una formazione meno fredda e secca di quella che deriverebbe da studi scientifici o (Dio guardi…) economici.

Idea tradizionalmente europea, non solo italiana. Anche gli inglesi dell’Impero vittoriano studiavano storia ed anche letteratura e poi andavano a fare i funzionari imperiali, misurandosi con il diritto, l’economia, l’organizzazione sociale. Ma l’asse italiano è sostanzialmente filologico- letterario, anche a causa delle scelte “curriculari” operate dopo l’unità dal grande ministro dell’istruzione e grande letterato Francesco De Sanctis che pensò di formare i nuovi italiani attraverso la storia della letteratura, in mancanza di una vera storia unitaria fra le varie e variegate parti di cui era stato composto il nostro paese.

Ma come ne è uscita e ne esce la nostra classe dirigente? Piena di retorica, di eloquenza vacua e di “umanità” nel senso di remissione dei peccati (…nihil humani a me alienum puto).

Forse un po’ di freddezza e di secchezza degli studi scientifici ed economici non guasterebbe.