La consultazione pubblica voluta dal governo sul valore legale del titolo di studio si concluderà il 24 aprile. Ad oggi non è dato sapere in quanti hanno partecipato e qual è l’opinione di chi si è espresso su uno dei temi più «politici» del nostro dibattito pubblico. È un fatto che il nostro sistema universitario soffre di tanta, troppa uniformità, a tutto svantaggio della reale possibilità di scelta da parte degli studenti. Secondo Giliberto Capano, docente di Scienza politica nell’Università di Bologna, il peso assunto nel dibattito pubblico dal tema del valore legale è spropositato, perché la vera questione è un’altra.
Professore, cosa pensa della consultazione pubblica avviata dal governo?
Non l’avrei mai fatta. Mi sembra un’iniziativa demagogica, incentiva l’ideologismo che grava sul dibattito nostrano relativo alle politiche pubbliche. Sarebbe stato più utile un report comparato per capire e far capire come funziona negli altri Paesi. Ho grande stima per il presidente del Consiglio, ma un’iniziativa come la sua dimostra quanto sia confuso il tema del valore legale.
Partiamo dall’inizio. Perché il tema del valore legale del titolo di studio è così controverso?
Perché nessuno sa esattamente cosa vuol dire e tutti si immaginano che sia qualcosa di terribilmente rilevante. Invece, non lo è. È una questione di percezione collettiva, sia per coloro che sono a favore, sia per coloro che sono contro.
Da dove deriva questa confusione?
Si pensa che con l’abolizione del valore legale si attui la competizione tra le università, la sola in grado di dare «sostanza», finalmente, al «pezzo di carta». Ci vorrebbe dunque una legge che dicesse che il titolo di studio non ha più valore legale. Prima osservazione: ma siamo sicuri che ci sia realmente qualcosa da abolire? Facciamo un passo indietro, le faccio io la domanda: cosa vuol dire valore legale del titolo di studio? Probabilmente mi dirà: vuol dire che le pubbliche amministrazioni chiedono una laurea per accedere ai concorsi.
Nei fatti, è così.
Ebbene, è ragionevole che la Pa, come del resto accade in tutto il mondo per posizioni da una certa qualifica in su, chieda che il candidato abbia un certo titolo di studio. Ciò che viene contestato da coloro che sono per l’abolizione, è che il voto di laurea venga utilizzato come uno dei criteri per la selezione. Ma non c’è nessuna legge che obbliga a farlo. Il fatto che le amministrazioni usino il voto di laurea come uno dei criteri per valutare i candidati, e il fatto che le stesse amministrazioni dicano che per certi posti occorre la laurea in giurisprudenza piuttosto che un’altra, non sta scritto in nessuna legge. È una pratica delle Pa.
Allora qual è il problema?
Primo, che le Pa non sono capaci di fare il loro mestiere e vogliono semplificarsi le operazioni. Secondo, poiché nell’immagine di molti il voto è un criterio ammantato di oggettività, le Pa hanno utilizzato il voto di laurea come uno dei criteri. Attenzione: in tutti i Paesi del mondo c’è un qualche meccanismo – per ora accontentiamoci di chiamarlo così – mediante il quale l’autorità pubblica, direttamente o indirettamente, dice che i titoli di studio vanno bene o non vanno bene. Nei Paesi anglosassoni si chiama accreditamento.
Come mai, abolizione o no, il «pezzo di carta» è considerato il primo responsabile di uno «svuotamento» del valore reale a vantaggio dell’uniformità?
Prendiamo gli Stati Uniti, e nel caso specifico una laurea di primo livello in political science conseguita negli atenei di Berkeley, di Stanford e in un’anonima università dello Utah. Nel sistema americano tutti questi enti e titoli devono essere accreditati da agenzie private o pubbliche adibite a questo scopo. Nel momento in cui viene bandito un posto per una posizione molto elevata nel governo federale, 99 volte su 100 il neolaureato con il bachelor dello Utah non farà domanda, la faranno invece i due giovani laureati a Stanford e a Berkeley. Perché si sa benissimo che chi è uscito da Stanford o Berkeley, stesso titolo, stesso contenuto formativo, è sicuramente più bravo di chi si è laureato nell’università dello Utah.
Lei discrimina in partenza.
No, il punto è un altro, e cioè che Berkeley, Stanford e Utah si «scelgono» gli studenti. Da noi, invece, la vicenda ha un esito ironico: molti «abolizionisti» in realtà vorrebbero che venisse sancito un peso diverso a parità di titolo, in modo tale da rispecchiare la differenza qualitativa in base all’università che ha rilasciato il diploma. Ma l’idea di legalizzare le differenze è incostituzionale e iniqua socialmente.
Semplificando?
Se uno studente si laurea nel Politecnico di Torino o di Milano tutti sanno che sarà generalmente migliore di quello che si laurea nel Politecnico di Bari. Ma non può esserlo in virtù del fatto che l’università è «attestata» come migliore, bensì perché operano dei meccanismi per cui gli studenti che si iscrivono al Politecnico di Milano sono normalmente più bravi di quelli che si iscrivono a Bari.
Allora cosa deve fare lo Stato?
Assicurare che il contenuto formativo del percorso di studi rispetti un determinato standard. Questo è il senso dell’accreditamento: fissare i requisiti minimi di contenuto e qualità dei corsi di studio.
Anche noi avremo un sistema accreditato. L’Anvur vi sta lavorando.
Ciò vuol dire che tutti i corsi di studio di una determinata classe o settore dovranno essere accreditati. Ma il rischio insito nel sistema in fase di elaborazione, e che si tratterebbe di evitare, è quello di premiare non il portatore della conoscenza, che è sempre lo studente, ma l’ateneo in quanto tale, il «dove» uno si è laureato.
Ma non è l’esito inevitabile?
No. Le faccio ancora un esempio: io posso essere convinto che la facoltà di scienze politiche a Bologna sia una delle migliori d’Italia, ma non credo affatto che tutti gli studenti che si laureano in scienze politiche a Bologna siano eccellenti. Anzi, ho la certezza che il 20-25 per cento degli studenti che si laureano in scienze politiche in un’altra facoltà mediocre, siano meglio del 20-25 per cento che si laurea a Bologna. Occorre costruire un sistema di ranking delle università sulla base del fatto che le università migliori attraggono gli studenti migliori. Solo così lo studente è realmente al centro.
In altri termini, quali sarebbero gli errori da evitare?
Possiamo accreditare quanto e come vogliamo, l’importante è non ragionare sulla base del migliore dei mondi possibili, ma in concreto e sulla base delle analisi comparate. Esse ci dicono che in tutti i sistemi occidentali i flussi degli studenti sono coordinati: ci sono meccanismi naturali e spontanei mediante i quali gli studenti maturati più bravi vengono attratti e vanno in alcune università.
Mettiamoci dal punto di vista delle famiglie: come possono essere messe in condizione di scegliere?
Sotto questo punto di vista, è lo Stato ad essere deficitario. Lo Stato dovrebbe rendere pubblici e fruibili i ranking della qualità complessiva dei corsi di studio. Lo scopo è far sapere a chi ha intenzione di fare ingegneria che a Torino avrà una qualità nettamente superiore a quella di chi la farà a Messina. Il figlio povero dell’operaio di Trapani portato per lo studio potrà fare ingegneria a Torino? Attualmente, di diritto, sì, ma non di fatto. Invece, nei grandi sistemi in cui le università possono scegliere i più bravi, esse hanno anche i migliori mezzi per prendersi i più bravi «senza mezzi». Harvard aveva i soldi per dare una borsa di studio a quello studente squattrinato, ma con grandi qualità, che era Bill Clinton.
Cosa manca?
Il coraggio di fare le classifiche della qualità, e i mezzi per garantire ai meritevoli senza mezzi di fare bene dove possono effettivamente farlo. Poi non dovremmo distinguere per università: troppo generico, ma per facoltà e corso di laurea. In Italia non abbiamo Oxford e Cambridge, che sono eccellenti in tutto. Il problema della nostra didattica – ma sto parlando anche della ricerca – è che abbiamo l’eccellenza distribuita, solo più concentrata nei grandi atenei generalisti. Quindi i ranking da noi dovrebbero essere fatti per struttura didattica, non per università.
Le cose da fare subito?
Uno dei problemi della politica universitaria – ma anche scolastica – in Italia è che tutti pensano alle «cose da fare subito» e nessuno, invece, ad una strategia articolata di medio periodo. La cosa da fare subito sarebbe elaborare un piano con relative scadenze che ci porti nell’arco di 5-7 anni a funzionare come funzionano i sistemi virtuosi. E infine, togliersi dalla testa che esistano soluzioni semplici a problemi complessi.
(Federico Ferraù)